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La prima volta dei Verdena in un palasport: il racconto

Ad un certo punto spuntano pure palloni giganti, manco fosse uno show dei Coldplay: un'allucinazione
La prima volta dei Verdena in un palasport: il racconto

Alle 21.45 si parte. Con un ritardo di tre quarti d’ora rispetto all’orario inizialmente previsto (gli organizzatori avevano già posticipato di mezz'ora alla vigilia rispetto alle 21, l'orario riportato sul biglietto). Pazienza se qualcuno è ancora in fila fuori dall’arena, a causa dei disagi legati alla riconversione dei biglietti per il concerto, che raggruppa in un’unica data i due appuntamenti originariamente previsti lo scorso novembre all’Atlantico, a pochi metri dal Palazzo dello Sport, da mesi chiuso ("I problemi delle file dipendevano solo ed esclusivamente da un malfunzionamento dei terminali", fanno sapere gli organizzatori). Una casualità, spiegano loro, quasi mantenendo un profilo basso, il fatto che dopo trent’anni di attività i Verdena si ritrovino a fare il loro primo concerto in un palazzetto, per lo più non in Lombardia, lo zoccolo duro della band partita dalla provincia bergamasca nel ’95 inseguendo il mito di Kurt Cobain e dei suoi Nirvana (etichetta, quella di “Nirvana italiani”, che in realtà per una vita i fratelli Alberto e Luca Ferrari e Roberta Sammarelli hanno cercato in tutti i modi di scrollarsi di dosso), ma a Roma: è che in assenza di altre venue sufficientemente capienti per ospitare i 7 mila fan che avevano acquistato i biglietti per le due date autunnali, alla fine - d’accordo con management e promoter - si è pensato di sfruttare la soluzione palasport. Sia quel che sia, quello di ieri sera è stato il primo concerto dei Verdena in un palazzetto, una festa all’insegna dell’understatement - ma pur sempre una festa - a chiusura del tour indoor legato all’album “Volevo magia”, che lo scorso settembre ha segnato il ritorno sulle scene del trio a distanza di sette anni da “Endkadenz”.



“Via”, sussurra Alberto, nascosto in controluce, dando ufficialmente il via al concerto. Non ci sono - come in ogni concerto-evento del genere che si rispetti - filmati introduttivi a ripercorrere le tappe principali del percorso che in questi trent’anni ha portato i Verdena a diventare una delle band più venerate e idolatrate del circuito alternativo italiano, per la loro talebana devozione ai dogmi della scena, ai quali sono sempre rimasti fedeli. Si parte subito con “Chaise Longue”: la voce di Alberto che all’inizio è eterea, su un sound acustico ed echi ad accompagnarla, poi diventa fragorosa. La chitarra elettrica si insinua nell’atmosfera più delicata, pompa il brano, lo rende nervoso grazie a delle scariche. Ci sono la dolcezza, la vertigine, la forza, l’imprevedibilità, il testo in cui ognuno può trovare il suo personale senso: tutti gli anti-codici a cui i fratelli Alberto e Luca Ferrari e Roberta Sammarelli ci hanno abituato, in qualche modo compaiono. Una dichiarazione di intenti. I tre, sul palco del Palazzo dello Sport, di fronte a una platea adorante, sembrano alieni piombati da chissà dove, chissà come e chissà perché sullo stesso palco dove meno di una settimana fa si stava esibendo Ernia e prima di lui i Maneskin. “Svegliami se puoi”, canta Alberto. No, non è un sogno. Piuttosto, è un’allucinazione. Un’apparizione frutto di un trip lisergico, psichedelico, con l’acustica della struttura che distorce ancor di più il sound del trio. “Hola! Ce n’è voluto, eh. Ma ce l’abbiam fatta”, taglia corto il frontman, evitando i convenevoli del caso. E subito attaccano “Pascolare”, altro brano tratto da “Volevo magia”.



Ora quattro schermi si accendono alle loro spalle, mostrando un rettile inquietante, che scruta il parterre illuminato: un ritrovo di ex alternativi ed ex disadattati. Sono cresciuti: hanno imparato ad adattarsi al mondo e alle sue regole. Ma stasera sono tutti qui per ritrovarsi, riconoscersi, ricordarsi di quando al liceo gli altri ascoltavano Tiziano Ferro, Alexia e Paolo Meneguzzi e invece loro sfogavano le loro frustrazioni e il loro disagio consumando “Solo un grande sasso” e “Il suicidio dei samurai”, tra i manifesti sonori dei Verdena. Su “Crystal ball” alcuni palloni giganti cominciano a rimbalzare sulle teste degli spettatori nel parterre, manco fosse un concerto dei Coldplay. Pioveranno anche coriandoli, ad un certo punto? Arriveranno anche gli immancabili ospiti? No, niente di tutto questo, per fortuna: sarebbe troppo. Gli ospiti ci sono, ma se ne stanno seduti comodamente in platea, a seguire il concerto da spettatori. Come Francesco Motta, ultimo erede di quel mondo di cui Alberto, Luca e Roberta sono stati - e continuano ad essere - i massimi rappresentanti, eroici guerrieri Jedi impegnati a lottare contro il lato oscuro della forza, talvolta cedendole: come quando Alberto - e gli ormai pochi puristi della scena, talebani tanto quanto loro, prontamente glielo rinfacciarono - nel 2020 andò a suonare “Muori Delay” a X Factor (ma per una buona causa: dare una mano ai Little Pieces of Marmelade di Manuel Agnelli, che da oustider arrivarono secondi in quell’edizione del talent, perdendo per una manciata di voti contro la desaparecida Casadilego). “Dialobik”, “Paul e Linda”, “Cielo super acceso” chiudono, per ora, la parte dedicata all’ultimo album.



Si comincia a pescare dal passato. Su “Viba”, dall’eponimo album d’esordio del 1999, il pubblico, ora sufficientemente caldo, comincia a pogare sotto il palco. Niente discorsi, sul palco: solo qualche grazie appena sussurrato tra un pezzo e l’altro. Parla la musica: “Starless”, “Luna”, “Don Calisto”, “Fuoco amico II”, sono i flash che arrivano da “Solo un grande sasso” del 2001, “Il suicidio dei samurai” del 2004, “Requiem” del 2007 e “Endkadenz vol. 2” del 2015. Il sound perfora le orecchie. La voce di Alberto si fa sempre più luciferina, demoniaca: “Ci fischieranno le orecchie per un po’ di giorni”, ironizza Roberta. Fortuna che poi arriva “Certi magazine” a dare sollievo all’udio degli spettatori. Adesso le atmosfere, dopo un’ora di rock solido e febbrile, sono più acustiche, rilassate. Basta il giro di chitarra iniziale di “Trovami un modo semplice per uscirne”, e siamo di nuovo dalle parti di “Requiem”, per creare sotto al palco una distesa di schermi accesi, con i cellulari pronti a dare in pasto ai social il momento, tra i più attesi. Il palasport canta all’unisono: ma è un concerto dell’ultima star di “Amici” o dei Verdena? L’uno-due con “Razzi arpia inferno e fiamme” è uno dei passaggi clou- Non è ancora finita però: è appena cominciato. “Paladini”, “Caños”, “Lui gareggia” e “Scegli me” tengono su i giri del motore. 

Muori delay” è un altro dei momenti più romantici del concerto. Alberto siede dietro la tastiera, per accompagnarsi mentre canta quello che è forse il fiore all’occhiello della discografia dei Verdena fino ad oggi. Ma è su “Valvonauta” e “Un po’ esageri” che cominciano a scorrere i titoli di coda. Lo capiscono anche i fan, che si scatenano sotto il palco e urlano a squarciagola il ritornello del brano inciso dal trio nel disco d’esordio uscito ventiquattro anni fa: “Mi affogherei / sto bene se non torni mai”. Sembra quasi un greatest hits, adesso: chi l’avrebbe mai detto.

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