Fossati: “Nel patto fra industria e artisti il diavolo siamo noi”

Concretezza e forza delle parole, ma anche mistero. Ivano Fossati, 71 anni, è esattamente come molte delle sue canzoni più belle. Non in tutte, oggi, si riconosce. Ma quale artista, con un lungo percorso di sperimentazione e di dialogo d’amore con la vita e la musica, lo farebbe? Il mistero, quello sì, c’è sempre. È lì che schiaccia l’occhio ogni volta che appare. Questo perché il grande cantautore e compositore genovese, più di dieci anni fa, ha deciso di abbandonare la macchina industriale in cui è calato ogni uomo o donna di spettacolo per lasciare il ricordo delle sue canzoni, non del suo volto. "Quando penso a quella scelta di dieci anni fa – dice Fossati ai giornalisti - ormai penso sia stata la scelta giusta, non sento il desiderio di tornare indietro. Ci sono cose nella vita che si sbagliano, ma ogni tanto ci si azzecca, si fa una cosa giusta: per me quella è stata giusta".

Fossati ha ricevuto dall’Università di Genova la laurea honoris causa in Letterature moderne e Spettacolo, oltre che per la sua carriera di musicista e autore, per le sue idee, il suo impegno, la sua vicinanza ai giovani attraverso diversi laboratori, anche "per essersi speso in prima persona per lo sviluppo culturale della sua città". La sua prima lectio magistralis, da “neo dottore”, sentita ed emozionante, è su “Ispirazione, pensiero e sintesi nella musica discografica”. Chi lo conosce sa che è dotato anche di una grande ironia. Prima di iniziare una lectio monumentale, fa una premessa: “Questa mattina mi hanno scritto alcuni amici per congratularsi e dirmi che finalmente, con questo riconoscimento, potrò trovarmi un lavoro onesto”, sorride.
Poi apre piano piano le ali del suo discorso: “Per me l’ispirazione non ha limiti. È un territorio in cui ciascuno progetta l’impossibile e il possibile. Da sempre lotta contro il tempo. Quando venne inventato il fonografo si compì il primo miracolo della riproduzione. Una riproduzione che, cambiando, è arrivata fino a oggi, nell’epoca della sovrapproduzione. La musica oggi è ovunque, ce n’è fin troppa. I primi a scrivere quelle che vennero ribattezzate 'canzonette', negli anni ’30, dovevano già allora stare a delle regole perché quei pezzi potessero essere riprodotti e passati. C’erano dei tempi tecnici, delle durate specifiche. Fu il primo patto fra gli artisti e l’industria. Il primo asservimento in cambio di notorietà, il primo patto con il diavolo”. Fossati racconta il compromesso del “passaggio in radio” nei primi decenni del secolo scorso e tesse la narrazione fino agli anni ’50 e ’60, epoca del boom di un trio per lui fondamentale: il disco, il diffondersi del blues e la comparsa in scena di artisti autodidatti che non avevano mai messo piede in un Conservatorio.

“Il tempo su disco scese ancora – ricorda Fossati – gli artisti avevano ancora meno tempo a disposizione. La sintesi diventava sempre più una virtù imprescindibile. La sintesi delle prime canzoni dei Beatles era ed è da manuale”. Ma non basta. Gli artisti devono guardare in “alto”, devono lasciarsi ispirare. “Pete Townshend degli Who era colpito dalla musica minimalista, Jimi Hendrix ascoltava Stravinsky, Paul McCartney amava l’avanguardia di Luciano Berio. L'spirazione piove dal cielo, ma bisogna essere curiosi e pronti, con lo sguardo all'insù. Loro lo erano”, prosegue Fossati. E ancora, il momento più potente della lectio: “Io guardavo a Cesare Pavese, al suo scrivere in modo asciutto e cinematografico. A George Simenon che usava pochi aggettivi e lasciava un lavoro di pensiero al lettore. In 3 minuti e mezzo di canzone non c’è spazio per dire tutto. Quindi io consiglio: 'tu scrivi, saranno gli altri che costruiranno su quelle parole'. Serve scrivere pochissimo e lasciare tantissimo campo all’immaginazione di chi ascolta. Per fortuna non è mai stato girato un video di ‘Eleanor Rigby’ dei Beatles, avrebbe tolto spazio all'immaginario. Un altro che scrive in modo crudo e diretto è Irvine Welsh. Evoca mondi con pochi vocaboli, descrive il necessario. Noi oggi parliamo più come lui che come Dostoevskij”.

Una pausa, poi riprende subito il filo, andando al cuore: “Musica e pensieri, in definitiva, sono nati per essere commercializzati all’interno di un enorme ingranaggio. Sono in grado di mostrare i cieli più alti, di mettere le anime a nudo, di insegnarci qualcosa passo dopo passo e senza l'aria di volerlo o di poterlo fare. Se questa meraviglia è il risultato del patto tra gli artisti e l'industria discografica e se, come si dice, in questo patto 'faustiano' c'è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l'industria sia il diavolo. Sarebbe un diavolo perdente. L'ispirazione è ancora lassù, al suo posto, integra, fulgida, pronta a tutto come sempre, pronta a nuove generazioni di artisti visionari. Oggi la black music si è presa tutto. Il rap e l’r&b hanno modificato l’universo musicale. Io amo tutta la musica, alta, leggera, leggerissima. E in quel patto con il diavolo, noi scrittori da 3 minuti e mezzo che dobbiamo avere il dono della sintesi e dobbiamo guardare in alto, forse la parte del diavolo l’abbiamo sempre ricoperta noi".