“I Wanna Rock”: quando i Pearl Jam tornarono alle origini

“Non mi volevo confrontare con lui sulle cose. Ora invece parliamo di più. C’è stato un tempo in cui eravamo intimoriti dalle sue reazioni: adesso è più centrato”, raccontò ad un certo punto il chitarrista Mike McCready rivolgendosi ad Eddie Vedder, parlando dell’atmosfera che si respirava nello studio dei Pearl Jam nel 1997 durante le sessions di “Yield”, il quinto album del gruppo. In fondo è sintetizzato in quelle poche parole del chitarrista, il senso dell’operazione che vide Vedder tenere compatta la band dopo il grande exploit e le inevitabili turbolenze. Già dopo “Ten”, dieci milioni di copie vendute, la band aveva dimostrato di non voler più recitare la parte imposta da mercato, industria e media. Per il secondo album, “Vs.”, Vedder e compagni avevano scelto di non fare più videoclip (quello di “Jeremy” era stato fondamentale per il successo del disco, in un’epoca in cui la potenza di fuoco di MTV era inevitabilmente enorme). La battaglia contro Ticketmaster del 1994 si era invece rivelata suicida: la band aveva trascinato in tribunale l’agenzia con il monopolio della vendita dei biglietti dei concerti, ma aveva perso la causa. Risultato: i Pearl Jam erano rimasti tagliati fuori dal circuito dei locali rock che contavano, tutti in mano a Ticketmaster. Nel 1996, per sottolineare la loro estraneità, Vedder e soci avevano pubblicato “No code”, che – per input delle scelte del frontman, che agiva da leader incontrastato – aveva portato il gruppo verso un suono inusuale più psichedelico, distante dal rock diretto che aveva reso la famosa la band.
“Yield” ha appena compiuto venticinque anni: la storia del disco che segnò una svolta nella carriera dei Pearl Jam è suggerita dalla playlist “I Wanna Rock”, che raccoglie il meglio delle uscite rock internazionali, celebrando la generazione contemporanea e al tempo stesso guardando con rispetto ai grandi del passato. Dopo un album, lo stesso “No code”, in cui si erano concessi numerose sperimentazioni, con questo disco – per registrarlo, la band tornò a collaborare con Brendan O’Brien, che aveva messo mano a “Ten”, “Vs.” e “Vitalogy” – i Pearl Jam tornarono alle origini: un rock pulito, con pochi effetti sonori o saturazioni. Ascoltare pezzi come l’iniziale e rabbioso “Bran of J” e “Do the evolution”, su tutti.
Registrato allo Studio Litho e allo Studio X di Seattle, in quegli anni frequentato anche da Beach Boys, Soundgdarden e REM, “Yield” fu il primo disco dei Pearl Jam in cui tutti i componenti parteciparono attivamente alla sua concezione e in particolare alla scrittura dei testi, che fino ad allora era stata appannaggio esclusivo di Eddie Vedder. Fu proprio sua l’intuizione di coinvolgere maggiormente il resto del gruppo nelle sessions. Che furono lunghissime: “Non ci siamo posti limiti. Pensavamo: ‘Andiamo avanti, poi quando sentiremo che il disco sarà finito, lo considereremo un disco”, ricorda il batterista Jack Irons, che lasciò la band poco dopo l’uscita di “Yield”, durante il tour promozionale del disco. Il bassista Jeff Ament, invece, aggiunge: “Fu divertentissimo inciderlo. Abbiamo avuto tutti voce in capitolo: ci sentivamo davvero parte di una band”. Fu proprio Vedder il motore del cambiamento: la sua volontà di controllo aveva messo soggezione al resto della band nel periodo precedente e lo splendido isolamento era in larga parte dovuto alla sua paura di fare dei Pearl Jam qualcosa di troppo grosso da maneggiare, dopo l’esplosione della bolla del grunge.
L’intuizione del frontman si rivelò giusta: “Yield” venderà più di “No code”, ma soprattutto permetterà alla band di trovare un equilibrio tra la voglia di fare le cose a modo proprio e alcuni eccessi isolazionisti del periodo precedente.