Francesco Baccini: “Sanremo? Oggi è peggio degli Anni ‘90”

Le lotte con i discografici, il Festival di Sanremo al quale accettò di partecipare portando in gara una canzone con un testo volutamente demenziale per prendere in giro la kermesse e i suoi luoghi comuni, il politically correct, i Maneskin, la censura: stare mezz’ora al telefono con Francesco Baccini significa appuntarsi almeno sei potenziali titoli per l’intervista, uno ogni cinque minuti. Il 62enne cantautore genovese è noto per la sua proverbiale schiettezza: non è uno che gira intorno alle cose. Tutt’altro. “Però adesso mi arrabbio di meno. Voglio fare le cose che piacciono a me. Poi se piacciono anche a qualcun altro, tanto meglio”, mette le mani avanti lui, che ha appena pubblicato un nuovo singolo, “Navigante di te”, antipasto di quello che sarà il suo primo album di inediti in (addirittura) sedici anni. “Non è un inedito, però. Ma un brano incluso nell’album ‘Dalla parte di Caino’ del 2007, che ho deciso di riarrangiare”.
Di canzoni inedite ne avrai scritte a bizzeffe, in sedici anni: perché questa scelta?
“L’ho ritirata fuori per chiudere un cerchio. Quando proposi ai discografici della Target, l’etichetta che pubblicò ‘Dalla parte di Caino’, di farla uscire come singolo così come l’avevo immaginata e come l’ho riarrangiata adesso, in chiave acustica, mi risposero che non andava bene: non era abbastanza radiofonica. All’epoca accettai di scendere a compromessi. D’altronde se un disco non aveva determinate caratteristiche, dal tappeto di tastiere alla ritmica fatta in un certo modo, ti dicevano che le radio non l’avrebbero passato. Io mi ero già ribellato a certe imposizioni qualche anno prima”.
A che prezzo?
“Quando decisi di sciogliere il contratto con la Warner due dischi prima del previsto, fui in qualche modo costretto a presentarmi in gara al Festival di Sanremo, io che non avevo neppure mai visto un'edizione per intero: ‘Se vai, ti liberiamo dalla penale’, mi dissero”.
Che anno era?
“Il 1997. Avevo già vinto naturalmente il Festivalbar con ‘Sotto questo sole’ e la Targa Tenco con ‘Cartoons’ come Migliore opera prima. Siccome al Festival non ci voleva andare nessuno, perché se avevi una carriera avviata ci pensavi due volte prima di mettere piede all’Ariston, la Warner decise di mandare me. Accettai, ma a modo mio”.
Cioè?
“Presentai in gara una canzone che era in realtà una parodia del Festival: si intitolava ‘Senza tù’ e il testo metteva in fila una serie di luoghi comuni presenti nei testi delle canzoni sanremesi: ‘Sei stata tu a spezzare le ali del mio cuor / ma se stasera fossi qui, i violini sentirei’. Peccato che nessuno mi comprese”.
Risultato?
“Niente, mi classificai undicesimo. Affrontai quella settimana come se fosse una vacanza a Disneyland: fu il mio primo e ultimo Sanremo, un modo per fare un passo indietro rispetto quel mondo”.
Però negli anni ti sei candidato più volte, senza successo.
“Ma l’ho fatto per provocare. Siccome il mio ex manager, Gianmarco Mazzi, con il quale il rapporto non si era chiuso nel migliore dei modi, era diventato direttore artistico, mi divertivo a mandargli pezzi sapendo che li avrebbe puntualmente scartati. Con scuse assurde”.
Esempi?
“Nel 2006 gli mandai una canzone su Marco Pantani, ‘In fuga’, contenuta nell’album ‘Stasera teatro!’. Mi disse: ‘Non si può parlare di Pantani a Sanremo’. L’anno successivo mandai ‘Fragile’. Mi scartarono anche in quella occasione. Naturalmente per motivi che non avevano a che fare con la musica”.
Cosa vuoi dire?
“Quando partecipai a Sanremo nel ’97, sapevo già che sarei stato preso a prescindere dal tipo di canzone che avrei presentato. La Warner aveva una quota e avevano scelto di mandare me: su quel palco avrei potuto presentare pure la sigla de ‘L’Ape Maia’”.
Pensi che oggi sia ancora così?
“Penso che oggi sia ancora peggio. All’epoca c’era una commissione artistica, almeno. Oggi, invece, è tutto in mano a un solo personaggio”.
Ad Amadeus hai mandato qualche proposta?
“Assolutamente no. Ho fatto un passo indietro perché nella discografia di oggi non mi riconosco più: oggi la musica non è arte, ma un prodotto di marketing. A me non piace cercare il consenso della gente. Non inseguo i gusti popolari: non faccio il venditore di cioccolatini nella vita, ma il musicista”.
Con autori, produttori e conduttori televisivi è cambiato qualcosa dopo il j’accuse con il quale denunciasti di “essere diventato un nemico pubblico da epurare” e parlasti di censura?
“No. Evidentemente nella mia carriera ho affrontato argomenti delicati e dato fastidio. È cominciato tutto con il disco ‘Nomi e cognomi’, nel 1992: il primo singolo era ‘Giulio Andreotti’.
Cos’è successo con “Le donne di Modena”, lo scorso ottobre?
“A un premio letterario ho fatto una battuta: chissà se oggi con il politically correct potrei riscrivere questa canzone. Solo che una ragazza del pubblico mi ha contestato sul serio, accusandomi di sessismo per alcuni versi: ‘Fanno da mangiare, sanno cucinare…’”.
Come hai reagito?
“Le ho detto la mia: se fosse per il politically correct, oggi dovremmo cancellare metà delle canzoni che hanno fatto la storia della musica. A partire dal rock”.
A proposito di rock: cosa ne pensi dei Maneskin?
“Non penso. Non ho nessuna opinione: non li conosco abbastanza, dovrei informarmi. Ma mi interessano altre cose (ride)”.