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Recensioni sentimentali: C.S.I.,“Linea Gotica”

Tratte dal libro “Scrivevamo sulle scarpe” di Luca Azzini
Recensioni sentimentali: C.S.I.,“Linea Gotica”

Passavo solitamente le pause pranzo nel chiostro di via Festa del Perdono, la sede più grande dell’Università degli Studi di Milano. In quelle aule non seguivo molte lezioni, solo le materie in comune ai corsi di studi di Lettere o Filosofia, ma era bello sedersi sui muretti del patio o nell’erba quando era possibile. C’erano tante storie da osservare, quasi tutte completamente sconosciute. Di rado capitava qualche amico o facevo due chiacchiere con i pochi visi che avevo imparato a riconoscere a lezione. Perlopiù me ne stavo in disparte, a farmi gli affari miei, a scribacchiare qualcosa, ad ascoltare musica. 

Era un autunno dolce e tiepido, come quelli di Milano quando ci si mette d’impegno a farti stare bene. Oziavo tra testi di filologia romanza e letteratura francese, tra ipotesi di geografia umana - che non ho ancora oggi ben capito cosa significhi - e un meraviglioso corso monografico di storia contemporanea dove non si faceva altro che guardare film, ogni mattina. Nel lettore CD portatile girava a ciclo continuo il secondo album dei C.S.I. 

Ci sono dischi che sono mondi interi, altri sono romanzi o film o drammi teatrali. Alcuni sono persone. 

“Linea Gotica” per me ha sempre simboleggiato un viaggio. Lo era il disco precedente, una necessaria fuga dallo sgretolamento delle certezze. Lo sarebbe stato il disco successivo, per andare a riscoprire nella lontana Mongolia il bisogno di ritornare a casa. 

In questo album di mezzo, invece, siamo scaraventati brutalmente nel cuore dell’Europa squarciata e stuprata dalla guerra e dall’odio cieco e fratricida. La partenza è nei Balcani, a piedi in una Sarajevo che brucia in cupe vampe. Il cammino prosegue spedito attraversando resistenze partigiane, lotte tra il divino e la carne, il bisogno di essenziale. 

Il punk filo-sovietico del decennio precedente si spoglia dei canoni e dei cliché, la batteria, quando non assente, rimane in penombra. L’elettricità plumbea e minimale delle chitarre di Zamboni e Canali riverbera le lacerazioni di un momento storico doloroso. Il basso di Maroccolo dirige il Consorzio con le sue linee eleganti e commoventi. 

Ferretti Giovanni Lindo, voce di quei miei anni, narra gli spasmi di questo tempo detestabile, scorteccia le parole aride e secche col suo salmodiare, più sussurrato e armonioso che d’abitudine. Inarrivabile la sua scrittura, la sua visione, in questo disco. Ricordo che sovente mi limitavo a leggerne il libretto, dove i testi veri e propri dei brani sono inframmezzati da pensieri e storie, esegesi ai significati che ne aggiungevano altri. 

“E ti vengo a cercare” di Battiato, col maestro che si palesa umilmente sul finale, è la purezza che persevera tra i cumuli di macerie: la più bella cover della storia della musica italiana. 

Un quarto di secolo dopo, i tempi sono forse ancora più detestabili, ma ho dalla mia l’esperienza di chi sa che anche l’infelicità può essere preziosa. 

Da quel chiostro soleggiato ho portato con me “Irata” e Pasolini, la voce rassicurante di Ginevra Di Marco ad ammorbidire le parole, le rose, le spine, i cavalli, tanti cavalli, i comandanti, i monaci e la mia fascinazione infinita. 

 

Questo testo è tratto dal libro “Scrivevamo sulle scarpe” di Luca Azzini, pubblicato da Edizioni Dialoghi, per gentile concessione dell’autore e dell’editore.

 

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