
L’apertura delle pagine degli Spettacoli de "La Repubblica" è dedicata a «una manifestazione iniziata l'11 dicembre e in programma fino a domenica, con la quale la Cité de la Musique di Parigi rende omaggio al più importante documentarista rock: l'americano Donn Alan Pennebaker. La retrospettiva parigina, intitolata "Rock en scope" e assemblata da Christian Labrande, mostra 12 dei tanti film con i quali, in più di 30 anni, Pennebaker ha raccontato intere generazioni di musicisti e di fan, con titoli come "Jimi plays Monterey" e "Ziggy Stardust and the Spiders from Mars", "Woodstock Diary" e "Don't look back". E' un uomo che dal '53 (anno in cui fondò la società documentaristica "Drew Associates") ha voluto raccontare la Storia: ha filmato John F. Kennedy, la morte di Martin Luther King, la campagna elettorale di Clinton nel '93. Ora sta girando la storia della Stax, l'etichetta degli anni 60». L’intervista al 74enne Pennebaker, firmata da Laura Putti, è molto interessante. Eccone alcuni brani.
«Domenica scorsa, nell'Anfiteatro della Cité de la Musique, hanno proiettato due film su Jimi Hendrix e, a seguire, quello sui Depeche Mode. Visti di seguito sembravano musicisti da pianeti lontanissimi: come ha fatto, a distanza di decenni, a mantenere lo stesso sguardo su situazioni così differenti?
"Quando mi hanno proposto i Depeche Mode non sapevo neanche chi fossero. Mi interessavano più loro della loro musica. Li ho semplicemente seguiti in tournée: ogni concerto era un rito, una messa, e quei ragazzi erano gli idoli, oggetti di un fanatismo individualistico".
Però a un certo punto i suoi piccoli inglesi dicono: Elvis? Che noia...
"Strano, no? Questo mi ha insegnato a non dare tutto per scontato. Certe cose che per noi sono la Storia, proposte ad altri producono un "fuck you". Ecco, credo che sia questo "fuck you" a mantenere viva la musica". (...)
Perché Dylan non amò il film "Don't look back", del 1965? E perché l'altro che girò su di lui ("Eat the Document") non uscì mai?
"Dylan amò il film, non amò il fatto che c'era lui dentro. "Eat the Document" fu mostrato in qualche rassegna. I miei lavori nascono senza essere comandati dalle case discografiche. Io sono indipendente, quindi piccolo, quindi con grandi difficoltà a piazzare i miei film".
Chi, tra i musicisti che ha filmato, le ha lasciato il ricordo migliore?
"Più di uno. Tra tutti direi Jimi Hendrix. Era un ragazzo dolce, disponibile, simpatico. Lo ricordo ancora alle prese con il mio Nagra mentre, in un club di New York, mi aiutava a registrare un concerto in memoria di Martin Luther King. Ho molto amato anche Otis Redding. Se non fosse morto così giovane sarebbe diventato il più grande". (...)
Qual è, secondo lei, la grande differenza tra i musicisti di allora e quelli di oggi?
"Il meccanismo commerciale che ruota loro attorno, il problema del look. Qualunque artista oggi è preoccupato della propria immagine. Negli anni 60 il referente era il pubblico. Se Jimi vedeva una camera sul palco non sapeva neanche a che cosa servissero quelle riprese. Quindi non gli interessava. Oggi, se sali su un palco con una camera, stai pur sicuro che il musicista sa benissimo chi sei e si preoccuperà più dei tuoi movimenti che del pubblico".
E questo non la amareggia?
"Perché? Tutto è interessante, io non posso e non voglio avere preconcetti. Non si può filmare la realtà giudicandola"».
«Domenica scorsa, nell'Anfiteatro della Cité de la Musique, hanno proiettato due film su Jimi Hendrix e, a seguire, quello sui Depeche Mode. Visti di seguito sembravano musicisti da pianeti lontanissimi: come ha fatto, a distanza di decenni, a mantenere lo stesso sguardo su situazioni così differenti?
"Quando mi hanno proposto i Depeche Mode non sapevo neanche chi fossero. Mi interessavano più loro della loro musica. Li ho semplicemente seguiti in tournée: ogni concerto era un rito, una messa, e quei ragazzi erano gli idoli, oggetti di un fanatismo individualistico".
Però a un certo punto i suoi piccoli inglesi dicono: Elvis? Che noia...
"Strano, no? Questo mi ha insegnato a non dare tutto per scontato. Certe cose che per noi sono la Storia, proposte ad altri producono un "fuck you". Ecco, credo che sia questo "fuck you" a mantenere viva la musica". (...)
Perché Dylan non amò il film "Don't look back", del 1965? E perché l'altro che girò su di lui ("Eat the Document") non uscì mai?
"Dylan amò il film, non amò il fatto che c'era lui dentro. "Eat the Document" fu mostrato in qualche rassegna. I miei lavori nascono senza essere comandati dalle case discografiche. Io sono indipendente, quindi piccolo, quindi con grandi difficoltà a piazzare i miei film".
Chi, tra i musicisti che ha filmato, le ha lasciato il ricordo migliore?
"Più di uno. Tra tutti direi Jimi Hendrix. Era un ragazzo dolce, disponibile, simpatico. Lo ricordo ancora alle prese con il mio Nagra mentre, in un club di New York, mi aiutava a registrare un concerto in memoria di Martin Luther King. Ho molto amato anche Otis Redding. Se non fosse morto così giovane sarebbe diventato il più grande". (...)
Qual è, secondo lei, la grande differenza tra i musicisti di allora e quelli di oggi?
"Il meccanismo commerciale che ruota loro attorno, il problema del look. Qualunque artista oggi è preoccupato della propria immagine. Negli anni 60 il referente era il pubblico. Se Jimi vedeva una camera sul palco non sapeva neanche a che cosa servissero quelle riprese. Quindi non gli interessava. Oggi, se sali su un palco con una camera, stai pur sicuro che il musicista sa benissimo chi sei e si preoccuperà più dei tuoi movimenti che del pubblico".
E questo non la amareggia?
"Perché? Tutto è interessante, io non posso e non voglio avere preconcetti. Non si può filmare la realtà giudicandola"».
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