Si può entrare nella mitologia rock senza aver mai scritto canzoni, imbracciato una chitarra elettrica o calcato le assi di un palcoscenico. Storm Thorgerson, per esempio. Lui, il suo posto nella leggenda se l’è conquistato con altri strumenti: aerografi, pennelli, macchine fotografiche, attrezzi da scultore, computer (il meno possibile, questi ultimi). Con l’ex socio Aubrey “Po” Powell creò negli anni ’60 lo studio grafico Hipgnosis: e basta quel nome ad evocare molte delle immagini, delle copertine di dischi e delle “esperienze visuali” (espressione pomposa, ma di questo si tratta) più celebri della storia del rock. I Pink Floyd, vecchi compagni di liceo a Cambridge (Thorgerson frequentava la stessa classe di Roger Waters ed era amico d’infanzia di Syd Barrett) sono stati i suoi primi e più affezionati clienti: portano la firma di Hipgnosis le mucche al pascolo di “Atom heart mother”, il prisma riflettente di “The dark side of the moon”, l’uomo in fiamme di “Wish you were here”, immagini scolpite nella coscienza collettiva del pubblico rock. E che dire dell’inquietante obelisco di “Presence” e dei paesaggi arcani di “Houses of the holy” (Led Zeppelin), dei crudi scatti in bianco e nero di “The lamb lies down on Broadway” (Genesis), del viso di Peter Gabriel in liquefazione sulla cover del suo terzo album solista (quello di “Biko”)? Questo il passato glorioso: ma da tempo, chiuso il paragrafo dei primi anni ’80 in cui si riciclò come video-maker (con esiti da lui stesso giudicati fallimentari), il cinquantanovenne inglese di origini norvegesi è tornato in piena attività. Pubblica libri (l’ultimo, nel 1999, è intitolato alle “100 best album covers”,) e continua a concepire e realizzare copertine di dischi: Cranberries, Phish, Dream Theater, Anthrax, Audioslave e, naturalmente, Pink Floyd (il live “Pulse”, quello con il led luminoso che pulsa ad intermittenza; l’antologia “Echoes”). Da pochi giorni ha completato il repackaging di “The dark side of the moon”, pronto ad essere sfornato in occasione del trentennale (il 24 marzo prossimo) in scintillante versione Super Audio CD a 5.1 canali surround. Una buona occasione per fare una chiacchierata con l’indaffaratissimo ed eccentrico Storm, una rockstar a pieno titolo.
Perché l’artwork originale di “Dark side” è stato modificato, in occasione del trentennale?
Perché il suono del SACD è diverso da quello del vinile e del CD. Il disco è stato remixato in versione multicanale utilizzando i nastri originali e il risultato è un’esperienza sonora differente. Ne abbiamo discusso, e poi abbiamo deciso che era il caso di modificare anche la copertina. L’idea di fondo è rimasta la stessa, però: un raggio di luce bianca che passando attraverso un prisma si scompone in uno spettro di colori. Nel 1973 lo avevamo disegnato con l’aerografo; nel 1993, in occasione del ventennale, realizzammo una fotografia del prisma. E oggi ne abbiamo fatto qualcosa di simile a quei disegni che adornano le vetrate colorate nelle chiese.
Perché sceglieste proprio il prisma, trent’anni fa, per raffigurare il contenuto del disco?
Per tre motivi diversi, direi. In primo luogo volevamo richiamare in qualche modo l’attenzione sul light show dei Pink Floyd, che a quell’epoca era diventata una delle attrazioni principali dei loro spettacoli dal vivo. Volevamo anche comunicare qualcosa con la forma geometrica del triangolo, che nella sua tensione verso un vertice esprime l’idea dell’ambizione umana ma anche l’avidità e la follia che possono esservi connessi: temi che ricorrevano più volte nei testi dell’album. Infine, il gruppo desiderava un’immagine grafica, più precisa e in qualche modo più asettica delle fotografie che avevano illustrato copertine precedenti. Il prisma fu lo sviluppo di un’idea che avevo già concepito in precedenza ma che non avevo mai utilizzato.
Nell’edizione originale in vinile c’erano anche due poster…
E ora saranno tre… Il tre è il numero attorno a cui ruota tutto: questo è il trentesimo anniversario di “The dark side of the moon”, e la nuova edizione esce il terzo mese del terzo anno del terzo millennio!
Avresti mai immaginato che il tuo lavoro sarebbe finito nelle mani di 40 milioni di persone?
Quel disco ha cambiato la vita ai Pink Floyd, ma nessuno avrebbe potuto immaginare un successo così enorme. Come designer di copertine non sai mai che effetto avrà il tuo lavoro sulla gente, se quel che hai realizzato colpirà l’immaginazione di chi ha acquistato il disco. Il pubblico, naturalmente, compra i dischi per la musica che contengono e non per la copertina. Se un disco vende oppure no non dipende certo dall’immagine di copertina.
A cosa ti ispiri, nella scelta delle immagini che accompagnano un disco? Alla musica, ai testi, agli input che provengono dagli artisti o ad altro ancora?
Un po’ tutto questo. Anche i titoli, spesso, c’entrano qualcosa. Dipende da caso a caso. Oggi, per esempio, sto completando le copertine di due nuovi album per Alan Parsons e per la band americana Mars Volta; pochi mesi fa ho lavorato con gli Audioslave: in ognuno di questi casi la musica e gli input che ho ricevuto sono molto differenti. A volte gli stessi componenti di una band hanno punti di vista diversi, a proposito di quel che desiderano esprimere in una copertina. Quando mi conoscono bene, come i Pink Floyd, capita anche che abbiano poco da dire e che mi lascino carta bianca. Io assorbo i loro suggerimenti e poi li frullo nel cervello con le altre informazioni che ho a disposizione, il titolo del disco, i testi, le musiche. Alla fine del processo qualcosa, una qualche immagine, salta fuori…
In un’intervista pubblicata recentemente dal mensile Mojo Roger Waters sostiene che l’idea del maialino volante sulla copertina di “Animals” fu sua…
E’ così. L’idea del maialino volante era già emersa prima di mettersi al lavoro sulla copertina, come un punto fermo dell’intero progetto visuale. Fu sempre Roger a voler usare l’immagine della centrale elettrica di Battersea Park perché quell’edificio gli è sempre piaciuto: è un caposaldo del panorama urbano londinese… Noi avevamo fatto proposte alternative, ma la band preferì seguire l’idea di Roger. Ci siamo adeguati e abbiamo fatto del nostro meglio, credo.
Ho letto che gli studi Hipgnosis non erano esattamente il prototipo del lusso…
Tutt’altro, piuttosto una specie di topaia! Non avevamo molto denaro, disegnare copertine è un bel mestiere ma non ha mai arricchito nessuno. Non potevamo permetterci uno studio grafico più lussuoso: ma da un certo punto di vista non ha fatto una gran differenza.
Illustratori vostri contemporanei, come Roger Dean, indulgevano molto sul genere “fantasy”: sono rimaste celebri le sue copertine per gli Yes, quei paesaggi fantastici e lussureggianti. Voi di Hipgnosis, invece, sembravate più interessati a riprodurre oggetti di uso comune e situazioni apparentemente ordinarie: utilizzate però fuori contesto e in strane contrapposizioni, così da produrre un effetto spesso surreale, inquietante e misterioso…L’obelisco di “Presence” degli Zeppelin, l’uomo in fiamme di “Wish you were here…
E’ così. La stranezza non sta nelle persone o negli oggetti raffigurati ma nei loro comportamenti o nel contesto in cui sono collocati. Una mucca è una mucca, e basta. L’uomo in fiamme? Beh, può rappresentare una situazione reale, non surreale.. Nelle foto, nelle sculture, abbiamo sempre raffigurato cose e situazioni esistenti: è solo nella loro contrapposizione che cerchiamo di forzare un po’ la realtà. La fantasy non mi è mai piaciuta così tanto da volerla riprodurre come forma d’arte.
Quali artisti, fotografi, scultori o pittori hanno influenzato di più il tuo lavoro?
Troppi per citarli tutti, e nessuno in particolare. Non penso di essere un surrealista, anche se a volte ci sono delle similitudini con quella scuola. Riconosco analogie con Delaveaux, a volte con Kandinsky o con Magritte: la pittura è la mia influenza principale, direi. Amo molto le foto di Man Ray, ma non mi pare di aver mai guardato alla sua arte come ad una sorgente di ispirazione. Anche i film hanno la loro importanza: le fotografie, come i lungometraggi, possono raccontare o presupporre una storia. Un’immagine può essere una pura espressione grafica, ma può anche trasmettere l’idea di un racconto, un tocco surreale o un pizzico di humour. La mucca di “Atom heart mother”, per esempio, fu una cosa molto divertente per i tempi, e mi sembra che funzioni ancora… A volte, ad esempio per gli Anthrax e per i Phish, realizziamo delle sculture. E siccome si tratta di oggetti che non possono esistere in eterno, né rimanere per sempre nei luoghi dove li abbiamo piazzati, dobbiamo fotografarli. Mi piacerebbe sparpagliarli per il paese, ma non si può! Le palle rimbalzanti sulla copertina dei Cranberries (“Wake up and smell the coffee”) o la grande sfera d’acciaio degli Anthrax (“Stomp 442”) sono oggetti che hanno una precisa collocazione spazio-temporale: per preservarli nel tempo li devi fotografare, fissare su un’immagine. Ci sono degli elementi che riaffiorano continuamente perché mi piacciono: si potrebbe anche dire che sono delle mie ossessioni.
Qual è il lavoro di cui sei più orgoglioso?
Non posso rispondere a questa domanda. Ce ne sono molti che mi piacciono, e altri che mi piacciono meno.
E le tue copertine di dischi preferite, tra quelle realizzate dai tuoi colleghi ?
Per quello c’è il mio libro, “100 best album covers” (uscito a fine ’99). Sono scelte molto personali, che mi hanno causato settimane di discussioni con gli editori. La musica è un’arena enorme, e le copertine sono tantissime. Molte sono delle porcherie, o non hanno altro scopo che di raffigurare gli artisti o fornire informazioni sul contenuto di un disco. Ma altre meritano di essere ricordate: sarebbe facile fare un altro volume con altre 100 copertine…Ho pubblicato il libro per celebrare una forma d’espressione che trovo interessante soprattutto perché espone all’arte, in qualche modo, una massa di giovani che non ne avrebbero altrimenti occasione, non frequentando abitualmente le mostre e le gallerie. Grazie alla copertine dei dischi, un sacco di gente è entrata in contatto con il mondo della pittura, della grafica, della fotografia, dell’illustrazione, del computer design: forme d’espressione artistica che altrimenti non avrebbero magari mai incontrato, o a cui non avrebbero prestato la minima attenzione. Ci sono un sacco di grafici e di designer di valore impegnati in questo lavoro: forse oggi meno di un tempo, dato che l’industria discografica versa in pessime condizioni finanziarie e cerca di risparmiare su qualunque tipo di costo. E poi c’è il fatto che oggi molta gente non è più interessata ad acquistare il prodotto musicale, preferisce copiarlo o scaricarlo da Internet.
Come hai vissuto il passaggio dagli album in vinile al CD? E’ stato uno shock, per chi lavora sulla grafica delle copertine?
Nei primi anni ‘80 non l’ho vissuto in prima persona. Avevo abbandonato il settore e mi ero messo a dirigere videoclip per gente come Pink Floyd, Yes, Paul Young, Nik Kershaw e tanti altri. Successivamente mi sono ritrovato a rimettere mano ad alcune copertine dei Pink Floyd su cui la casa discografica aveva fatto un pessimo lavoro, nella trasposizione dall’album al CD. Quando abbiamo fatto “Momentary lapse of reason” e “The division bell”, invece, sapevamo che c’era il compact disc sul mercato e questo ha spinto me e i miei collaboratori a cambiare un po’ approccio, a usare talvolta immagini differenti.
Avere meno spazio a disposizione non è una limitazione di libertà?
Fino ad un certo punto, perché in un certo senso le nostre opere visuali non hanno dimensione. Possono essere riprodotte su un poster, su un tabellone pubblicitario, su una stampa o, appunto, sulla copertina di un CD. Così non sai mai bene che dimensione avrà il prodotto finito. Io tendo a lavorare indipendentemente da questo: il che, in un certo senso, non è sempre una buona idea dal punto di vista pratico. Ma non mi piace essere legato ai limiti imposti dalle dimensioni: soprattutto con la musica, che per me è un’esperienza espansa, di enormi dimensioni. Quando lavoro sulla musica, tendo a riprodurre delle immagini che possono diventare grandi a piacimento. Altri la pensano diversamente e ritengono che il design debba essere più specifico: realizzato in funzione (dell’oggetto che lo deve contenere, non secondo il tuo gusto personale.
Lavori ancora sui video?
No, ho capito di non esserci portato: hanno troppo a che fare con la performance dell’artista, con la sua faccia. Non mi interessa, e non ne sono molto capace.
Quando e perché si è sciolto il sodalizio di Hipgnosis?
E’ una decisione che io e i miei soci abbiamo preso di comune accordo nel 1981, per metterci a fare video. Ci sono voluti due anni circa per chiudere bottega, e dopo altri due anni e mezzo siamo entrati in crisi: è stato un periodo difficile, di liti e discussioni, abbiamo perso un sacco di soldi e ci siamo separati.
E con Roger Waters, hai mai ripreso i contatti, dopo il suo divorzio dai Pink Floyd?
No, non mi parla da vent’anni. Ma se è per questo non rivolge la parola neppure a David (Gilmour) o a Rick (Wright). Credo che abbia appena ripreso i contatti con Nick Mason. Mi capita ancora di lavorare per lui, comunque. Con gli altri membri della band sono in contatto: sento Gilmour al telefono e ho parlato con Mason proprio un’ora fa.
Nessuna notizia di Syd Barrett?
No. Syd purtroppo non sta bene, mentalmente, da almeno venticinque anni.
Ho letto che l’hai incontrato ai tempi delle registrazioni di “Shine on you crazy diamond”, nel 1975…
Già. Fu un’esperienza davvero triste, vederlo in quelle condizioni. Pensare che siamo cresciuti insieme…
(Alfredo Marziano)