
I Kansas - rocker di Topeka nati nel 1970 - sono tornati col loro quindicesimo album in studio - a ben 16 anni dal precedente "Somewhere to Elsewhere". Il nuovo "The Prelude Implicit" vede una formazione con parecchio "sangue fresco" in circolo (ben tre sono gli elementi entrati negli ultimi due anni), ma lo spirito sembra immutato: la musica viene prima di tutto... e nient'altro importa.
Ecco il risultato di una breve e ficcante chiacchierata con il batterista Phil Ehart, in organico dal 1973.
Sono passati tanti anni e i Kansas sono ancora qui. Pensavate sarebbe andata così?
Io, per quanto mi concerne, ho sempre pensato che i Kansas sarebbero durati molto. Noi facciamo tutto per la musica, non è una faccenda legata a uno o due tizi.
Come ci si sente, dopo tanti anni, a suonare nuovamente senza Steve Walsh?
Steve ci mancherà per sempre. È un grande amico. Ma le cose e le persone cambiano e la vita continua, a volte con grosse differenze…
Come è nato il nuovo materiale?
Zak [Rizvi – ndr] è stato il compositore principale, mentre Ronnie [Platt – ndr] si è occupato dei testi in particolare. Il resto del gruppo ha dato una mano con le parole, i titoli, le parti centrali dei brani e cose così. Insomma, è stato un lavoro di gruppo.
Dopo tanti anni, è stata dura lavorare con un nuovo cantante?
No, Ronnie è un tipo con cui si lavora benissimo. Questo disco è stato molto divertente, da realizzare.
Sono passati 16 anni dall’ultimo disco… pensate che i vostri fan storici siano ancora lì?
Ne sono certo… abbiamo fan vecchi e giovani. Li vediamo di continuo ai nostri concerti!!!
Con Platt, Manion e Rizvi nella formazione, pensi si possa parlare di “nuovi” Kansas?
Sì, questa è una band nuova con un nuovo disco. E accettiamo di buon grado tutti i cambiamenti del caso.
Se tu avessi modo di usare una macchina del tempo… cosa cambieresti nella storia della band?
A parte una sola cosa, molto personale, che ha a che fare con la salute di mio figlio, non cambierei una sola cosa. Nessuna.
[a.v.]