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I Pooh e me

C’è stato un (lungo) periodo in cui dir bene dei Pooh era severamente vietato, nell’ambiente della stampa musicale italiana. Chiamo a testimoni tutti i colleghi di lungo corso perché confermino che, a dispetto di tutte le convenzioni, mi sono sempre e fermamente dichiarato un estimatore del gruppo.

Era cominciato tutto con “Piccola Katy”, uno dei 45 giri che più avevo consumato nel mio mangiadischi Irradiette arancione; anche se, a dirla tutta, mi seccava un po’ l’evidente analogia del testo con quello di “She’s leaving home” dei Beatles – però riconoscevo a quel Pantros accreditato come autore del testo una botta di genialità nella frase “il tuo diario che sempre riempivi solo con ciò che faceva piacere a chi di notte lo andava a vedere” (senza saperlo già intuivo le grandi doti di paroliere di Valerio Negrini, che avrei imparato a conoscere più avanti). E poi l’altro lato del disco, “In silenzio”, era perfetto per i lenti delle festine di noi adolescenti di allora.

Qualche anno più tardi, entrato in possesso di una fonovaligia, fra i miei primi 33 giri allineavo, a fianco di “Abbey Road”, di “Foxtrot” dei Genesis, di “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson, di “Thick as a brick” dei Jethro Tull e di “Storia di un minuto” della Premiata Forneria Marconi anche gli album di “Alessandra” e “Parsifal”, con i fantastici arrangiamenti d’archi di Gianfranco Monaldi. Quando poi ho cominciato a scrivere di musica per un quotidiano della mia città – era più o meno la metà degli anni Settanta – e sono stato mandato a recensire uno spettacolo dei Pooh (non si chiamavano ancora “concerti”, all’epoca) ricordo di averne scritto con grande cura, evidenziando la gentilezza con la quale i componenti del quartetto avevano accettato le domande post-concerto (in pizzeria) di quell’evidentemente implume reporter che ero allora.

La sto facendo lunga? Sì, è vero. Ma è per spiegare che di Roby, Stefano, Dodi e Red ho prima apprezzato le canzoni, poi le doti umane, poi – in particolare nel periodo in cui sono stato, alla CGD, il loro ufficio stampa – la pazzesca professionalità. La “macchina Pooh” ha sempre girato alla perfezione: gli auguri ai giornalisti a fine anno, la puntigliosa organizzazione delle conferenze stampa (quelle in cui prendono la parola a turno con una equanime ripartizione dei tempi e degli argomenti – scherzando dicevo loro che parlavano come Qui Quo e Qua, i nipotini di Paperino, a fumetti consecutivi), l’attenzione maniacale ai comunicati (e, ai tempi in cui li si ciclostilava, un refuso significava ricominciare daccapo a battere sul foglio cerato con la macchina per scrivere…).

Credo che “amicizia” sia una parola da usare con cautela, e che forse l’amicizia fra un giornalista e un artista non sia del tutto accettabile dal punto di vista della deontologia; ma, insomma, penso di poter dire che la stima e anche l’affetto siano reciproci, fra i Pooh e me. Me ne sono accorto quando abbiamo salutato Valerio Negrini, nel gennaio del 2013: anche per me, certo meno che per loro, è stata la perdita di una persona cara, e abbracciandoli, quel triste lunedì mattina al Teatro della Luna, mi è parso di far parte della loro famiglia. Così come loro, un po’, fanno parte della mia vita, e non solo del mio mestiere.

 

Franco Zanetti

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