Il "Manifesto" di Shablo: "Non punto al mainstream e ai numeri”
“Questo disco non punta al mainstream, ma a nicchie di appassionati di un certo sound. È un tributo alla musica delle mie origini, a quella black music che ha fatto e fa da colonna portante a buona parte di quello che ascoltiamo oggi. Ma quelle radici, da molti ragazzi, non sono conosciute. Credo sia giusto farle riemergere. Il disco, proprio per come è strutturato, è una sorta di provocazione”. Shablo descrive così “Manifesto”, il suo producer album in uscita venerdì 4 luglio, che ha all’interno diverse collaborazioni in 17 tracce. “Non ho problemi a dire che in passato ho realizzato dei progetti o ho contribuito a farli realizzare con molto più ragionamento, con strategia, pensando ai risultati. Qui tutto ciò è assente”, prosegue. Un assaggio dell’album è stato “La mia parola”, il pezzo presentato all’ultima edizione del Festival di Sanremo con Tormento, Joshua e Gué: “Ha avuto riscontro perché è finito sotto quella lente, ma non è certo un pezzo da classifica”.
Come hai lavorato?
Il disco è nato, musicalmente, in tre sessioni da dieci giorni a San Gimignano, in Toscana. Mi serviva staccare dal mio lavoro di manager, per questo siamo andati lì. Oggi si lavora tantissimo per reference, e va bene, ci mancherebbe, ma a volte si rischia lo scopiazzamento. Nel mio disco ci sono tante citazioni. Joshua, oltre al polistrumentista Luca Faraone, è sempre stato presente durante la lavorazione, molti pezzi sono nati dalle sue melodie. Una volta chiuso il brano, lo mandavo all’artista che volevo coinvolgere, ero sin da subito molto convinto di chi fosse il nome giusto per certe tracce.
Come descriveresti “Manifesto”?
È il mio primo progetto solista, da “artista” diciamo. Un disco non guidato dall’ansia del risultato. Tutti siamo ambiziosi, vogliamo arrivare a più gente possibile, ma questo al massimo è una conseguenza, non l’obiettivo. Per le nuove generazioni ha un sound talmente legato al passato che potrebbe risultare nuovo. L’hip hop ha nel suo DNA il prendere riferimenti da ciò che c'è stato. Per quelli della mia generazione può risultare quasi vintage.
Perché parli “provocazione”? In che cosa sarebbe “provocatorio”?
Sono stato uno dei primi a portare la trap in Italia, ora tutto va verso quella direzione a livello mainstream. C’è bisogno di riequilibrare. La mia è una provocazione perché c’è il desiderio di andare in una direzione diversa. Il disco è ricchissimo, è un viaggio nella black music, ma non solo. Ci sono tanti strumenti suonati, vari assoli e momenti di respiro, qualcosa di sempre più raro nei pezzi urban. Ma non c’è nulla di passatista o museale.
Senti di avere un ruolo in questo processo di “riscoperta”?
Non voglio modificare il mio linguaggio per arrivare a tanti. In passato l’ho fatto, qui no. È un modo per far conoscere alle nuove generazioni un universo variegato. Quello che arriva in classifica è una piccola parte del rap, del mondo urban. Alcuni ragazzi di oggi non conoscono il Wu-Tang e i Sangue Misto. Non voglio ergermi a maestro, non voglio insegnare niente a nessuno, ma credo sia necessario ricordare le radici di questa cultura.
Joshua è il tuo Virgilio.
Joshua fa da fil rouge a tutto il progetto. Si è messo in gioco. Ha un background di musica afroamericana, anche per le sue origini. Ma non c’è solo lui. Tormento è il mio amuleto, un maestro che merita spazio anche oggi. Gué è il padrino del progetto come dimostra anche la collaborazione tra la nostra nuova etichetta Oyster e Island. C’è anche Mimì, che ha una voce pazzesca, ha solo 18 anni. Questi sono alcuni dei protagonisti.
Black music, ma non solo.
Sì, “Mille problemi” è latin, ma dark, non è il reggaeton estivo. “Che storia sei?” con Nayt, Joshua e Joan Thiele è un altro pianeta musicale ancora, è acustico, con i flauti di Michele Lazzarini, un grande musicista che purtroppo è mancato da poco e in questo disco, in più momenti, ha lasciato il suo testamento musicale. “Karma loop”, in cui c’è anche Ele A, è più rap, come “Welcome to the jungle” dove svetta la coppia Ernia-Neffa e “The one” con Noyz Narcos.
Hai fatto pace anche con Inoki.
“Immagina” con Inoki nasce tanto tempo fa quando vivevamo entrambi a Bologna, ma sembra scritto oggi, è un pezzo politico. Il nostro è stato un rapporto difficile e conflittuale, è stato bello rincontrarci. Ma c'è dell'altro. “Puoi toccarmi”, nuova versione del brano che produssi per Gué nel 2013, tratto da “Bravo ragazzo”, ha tre strofe rap, dura oltre quattro minuti. Oggi i brani durano poco più di due minuti. È il primo pezzo r&b e soul che ho prodotto con Gué e Tormento, con l’aggiunta, a questo giro, di Joshua che ai tempi dell’uscita dell’originale andava a scuola. Nel disco ci sono anche Roy Woods, artista canadese che fa parte della cricca di Drake, e Yellowstraps, che ha da poco firmato un pezzo con Nelly Furtado: sono due collaborazioni internazionali.
“Manifesto” si esaurisce qui?
Probabilmente ci sarà un seguito, aggiungerò dei brani.
Il Street Jazz Tour partirà il 3 luglio.
Nei live ci saranno sempre Joshua, Tormento e Mimì e tanti musicisti. Metà live sarà sul disco, l’altra metà sarà un tributo a un mondo con riferimenti a Lauryn Hill, James Brown e altri. La data speciale agli Arcimboldi di Milano, il 12 novembre, invece avrà tanti ospiti e sorprese.
La percezione dei producer è cambiata?
Oggi i producer album non si contano più. Un tempo non era così, feci io con Don Joe uno dei primi producer album di nuova generazione, “Thori & Rocce”, e ancora c’era stato tutto il lavoro portato avanti da Fritz da Cat. I produttori oggi fanno totalmente la differenza. Oggi sono come i registi di un film. E credo che in molti lo abbiano capito, per questo motivo sì, la percezione è diversa.