Il Jim Morrison di Val Kilmer fa ancora scuola alle giovani star

Quale sarà il ruolo per cui verrà ricordato dal pubblico Val Kilmer? Probabilmente quello di Iceman in “Top Gun” (risultato ragguardevole, considerando che appare per non più di un quarto d’ora nel film) o magari per la sua incarnazione algida di Bruce Wayne nel "Batman" di Joel Schumacher. Un buon compromesso in termini di qualità e popolarità è sicuramente Chris Shiherlis, il personaggio interpretato in “Heat - La sfida” di Michael Mann, considerato uno dei migliori heist movie di tutti i tempi.
A Hollywood però Val Kilmer ha lasciato il segno in modo più sottile, soprattutto tra le giovani generazioni di star odierne. Belli, molto belli, forse troppo per essere presi davvero sul serio: divi e sex symbol come Austin Butler, Jacob Elordi, Timothée Chalamet. In anni recenti hanno tentato con successo di dare una svolta più credibile alle loro ambizioni professionali (e da Oscar) percorrendo la strada di Val Kilmer: quella d’interpretare una rockstar e icona della musica statunitense.
Forse è questo il ruolo che ha più lasciato il segno nell’industria cinematografica tra i tanti interpretati da Val Kilmer: quello nel film dedicato ai Doors di Oliver Stone. Non il primo regista a carezzare l’idea di portare su grande schermo il Re Lucertola (ci pensò anche Quentin Tarantino) ma quello che negli anni ‘90 riuscì a mandare in porto l’operazione. Specie dopo aver visto Val Kilmer in “Willow” e aver stabilito che fosse l’interprete perfetto per il ruolo.
Quando arrivò nelle sale nel 1991, “The Doors” si rivelò un ritratto musicale divisivo: in molti criticarono le libertà biografiche che si era preso Oliver Stone, l’eccessiva attenzione al privato dell’artista rispetto alla sua produzione musicale. In questo senso si espresse anche il tastierista della band Ray Manzarek. Il consenso era unanime solo su un aspetto della pellicola: Val Kilmer sfiorava la mimesi assoluta con Jim Morrison, tanto che negli anni si accumularono testimonianze continue di performance dell’attore scambiate per quelle del cantante, tatuaggi col suo volto al posto di quello di Morrison, foto di testata in articoli riguardanti la band con immagini del film.
Se “Top Gun” aveva tirato Kilmer fuori dai confini delle commedie leggere rendendolo un sex symbol, il ruolo di Jim Morrison lo trasformò in un attore credibile, di livello, portandolo in quattro anni a girare con Michael Mann un cult come “Heat”.
In tanti coccodrilli che leggiamo in queste ore viene raccontato il processo lunghissimo ed estremo con cui si avvicinò al ruolo. Imparò a memoria una cinquantina di canzoni di Morrison arrivando a replicarne alla perfezione la voce, divenne un conoscitore maniacale dei suoi manierismi e delle sue movenze, s’incollò per mesi al fianco del produttore della band Paul A. Rothchild per acquisire quante più informazioni possibili, anche aneddotiche, su Morrison. Non lasciò nulla d’intentato sin dalle audizioni a cui si presentò scendendo da una macchina d’epoca, sparando dalla radio a volume altissimo la musica dei Doors. Scalzo e avvolto in strettissimi pantaloni di pelle, i capelli scarmigliati, lasciò i rivali a bocca aperta.
Correvano gli anni ‘90 e Harvey Weinstein era in procinto d’inventare un nuovo metodo per andare a caccia di Oscar. Una narrazione fatta di eccessi e totale devozione al ruolo, che partiva dalle testimonianze della New Hollywood con Robert De Niro e Al Pacino (entrambi compagni di set di Kilmer in “Heat”) e arrivava al modo in cui ancora oggi si raccontano questi ruoli. Val Kilmer questa narrazione ha contribuito a crearla e canonizzarla, in maniera per lo più involontaria. Come diremmo oggi, “ci era andato sotto”, tanto da dover andare in terapia a fine riprese perché Jim Morrison gli era rimasto incollato addosso, ossessionandolo.
Per il ruolo da protagonista in “The Doors” Kilmer non vinse l’Oscar né guadagnò una nomination, ma il suo salto di qualità in termini di percezione professionale spinse tanti giovani interpreti a fare lo stesso. In campo maschile il successo dell’operazione è tale che ancor oggi le star sono sempre alla spasmodica ricerca di un biopic musicale per tentare di entrare nel ristretto circolo degli attori che vengono presi davvero sul serio.
Un esempio piuttosto recente ce lo danno Austin Butler e Jacob Elordi. Erano già abbastanza noti tra i giovanissimi fan prima d’interpretare Elvis Presley in “Elvis” di Baz Luhrmann e “Priscilla” di Sofia Coppola (qui le recensioni). Ma proprio grazie a questo ruolo sono diventati immensamente più popolari e la loro agenda si è fatta ben più fitta, per quantità e qualità.
Lo stesso discorso si può fare per Timothée Chalamet che non a caso ha centrato la sua prima candidata all’Oscar proprio quest’anno con il ruolo di Bob Dylan in “A Complete Unknown”, dopo una carriera immacolata e un paio di ruoli che lo hanno portato vicinissimo a questo traguardo, senza però mai centrarlo. Chi ha aiutato Butler e Chalamet a curare la lunga campagna per vincere la statuetta li ha spinti a ricalcare proprio quel racconto che fece Val Kilmer, quel mix di mesi spesi a perfezionare il ruolo e la difficoltà a lasciarselo alle spalle. Chalamet per esempio ha raccontato di come abbia scelto, consapevolmente, di dedicare cinque anni della sua vita al progetto. Austin Butler confessò di non riuscire a smettere di parlare con la cadenza di Elvis, dopo averla lungamente cercata e costruita: una dichiarazione di cui gli è stato chiesto conto per anni, in maniera più o meno ironica.
L’esempio di Val Kilmer è talmente potente che funziona perfino in chiave negativa. Un’altra star che ha fatto il salto di qualità con il ruolo di una rockstar è stato Rami Malek con il suo ritratto di Freddie Mercury in “Bohemian Rhapsody”, valsogli una vittoria agli Oscar come miglior attore protagonista. Anche in questo caso grandi racconti di processi immersivi nel ruolo, grande mimesi e generale entusiasmo, incrinatosi però poco tempo dopo. In molti videro dentro la performance di Malek quasi una caricatura. Una forzatura, legata anche alla limatura degli aspetti più controversi del carattere del frontman dei Queen.
Non che in campo femminile non si tenti regolarmente la stessa strada e la stessa narrazione, ma con risultati infinitamente meno incisivi. Anche dopo la sua morte, l’esempio di Val Kilmer insomma continuerà a fare scuola. La prossima a provarci sarà Zendaya, appena scritturata dal regista Barry Jenkins per interpretare Ronnie Spector, cantante delle Ronettes.