Teatro degli Orrori, il ritorno: “Per noi il rock è religione”

“Vita mia, a noi due”, come viene declamato nel loro primo album, “Dell'impero delle tenebre”, uscito nel 2007. Una nuova sfida è all’orizzonte. La notizia della reunion del Teatro degli Orrori, con annesso tour “Mai dire mai”, composto da nove date in partenza dal 20 febbraio, ha riscaldato il cuore di tanti fan, a dieci anni dall’addio alle scene. La band di Pierpaolo Capovilla, Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero e Francesco Valente, ha incarnato uno degli ultimi sussulti di un rock italiano tutt’altro che accomodante, ma anzi sfidante nei confronti del pubblico. Chi è stato almeno una volta a uno dei loro concerti, in alcuni momenti della carriera stracolmi di persone, lo sa: le loro canzoni sono sempre state “pericolose”, febbricitanti, mai dome, scritte per far muovere il cervello e il corpo, non per rassicurare. In sostanza: l’opposto di molta della musica che circola oggi. Capovilla e Favero, intervistati separatamente con le stesse domande, raccontano che cosa ci si dovrà aspettare da questa tournée, parlano della rinascita del gruppo, della loro concezione e visione della musica, da sempre “in direzione ostinata e contraria”.
Che cosa vi ha convinto a tornare?
Capovilla: Abbiamo avuto delle offerte, un’offerta in modo particolare: quella di Magellano. Non posso certo nascondere che c’è un lato economico che ci ha spinto a prendere questa decisione. Al di là di questo è una scelta benvenuta perché è arrivato il momento di reagire a una musica che nel nostro Paese non dice nulla, noi siamo sempre stati mossi da un sentimento che viaggia in direzione ostinatamente contraria alla musica insignificante. Noi pretendiamo significato, contenuto e poesia. Quindi ben venga questa tournée e speriamo che porti miti consigli nella band, che era scoppiata anni fa: incomprensioni, piccoli, grandi torti reciproci, squilibrio dal punto di vista esistenziale, tutto ci giocò contro. Speriamo che questo tour possa riappacificare gli animi. Il lato artistico, ovviamente, ha avuto un peso sostanziale, se no non avremmo mai fatto questa reunion.
Favero: Per anni ci siamo sentiti dire “perché non tornate insieme”? A un certo punto ci siamo visti, abbiamo preso in mano gli strumenti e ci siamo resi conto che nulla era finito. La band è come un rapporto di coppia, anche se ci si separa rimane qualche cosa. Non sei tu che comandi fino in fondo. Non siamo padroni della musica che facciamo, siamo antenne. Forse non siamo noi che abbiamo scelto la reunion, è la reunion che ha scelto noi. Evidentemente dovevamo aspettare diverso tempo perché tutto ciò avvenisse…. Poi, sai, in merito agli scioglimenti c’è una narrativa che tende a esagerare…in una band ci sono le stesse dinamiche che si possono trovare in un luogo di lavoro, c’è chi si sta più o meno simpatico, ma io oggi sono positivo.
Nel tour ascolteremo canzoni nuove o per ora proporrete i vostri quattro dischi?
Capovilla: Per ora rimaniamo su quello che abbiamo fatto. Non abbiamo scritto canzoni nuove. Chissà che dopo la tournée non venga voglia di lavorare su un album. Attualmente le scalette del tour saranno delle panoramiche sui quattro dischi pubblicati. Saranno scalette impegnative, anche per me. Sarà una riscoperta. Le nostre canzoni hanno sempre avuto uno spirito critico di fondo, non sono canzoni da canticchiare. Ben venga “anche il romanzetto di appendice” come scrisse Antonio Gramsci, solo che noi di questa appendice non sappiamo cosa farcene. Speriamo che i nostri brani possano ancora incidere sugli animi delle persone.
Favero: Privilegeremo i primi due dischi, ma in generale sarà un viaggio in tutta la discografia. Come detto: io sul futuro sono positivo. Mi piacerebbe pensare a un disco nuovo. Anche perché se no che senso ha avuto tutto questo? Fai nove concerti e poi dici “ciao, grazie”?.
Come stanno andando le prove? Come è il clima tra di voi?
Capovilla: Io al momento non sto provando con la band. La band, però, sta provando da un bel po’ di tempo. Io inizierò a provare appena liberatomi da un impegno importante a Napoli, ovvero la registrazione del nuovo album dei Cattivi Maestri. Io gli altri componenti non li vedo da parecchio, da qualche anno. Con Gionata (Mirai, ndr) mi sono sentito al telefono e ci siamo confrontati sulla scaletta. So che cosa mi aspetta, sarà una bella sfida.
Favero: Era necessario in primis riprendere in mano gli strumenti. È stato figo farlo perché la musica a un certo punto andava da sola come se nulla si fosse fermato. Non nascondo che sono diventato matto per recuperare le parti perché alcune proprio non me le ricordavo (ride, ndr). Franz (Valente, ndr) invece incredibilmente si ricorda tutto, ma proprio tutto. Spero che la gente si godrà i live, senza perdere tempo a fare video per i social, che stanno assorbendo troppi pezzi della nostra vita.
Le performance del Teatro sono sempre state energiche e fisiche.
Capovilla: E dovranno ancora esserlo. Il palcoscenico è teatro. Il concerto rock è una forma di teatro, ci chiamiamo così apposta. Io mi sento più un attore che un cantante. Ho sempre cercato questo approccio, lo trovo più efficace.
Favero: Si sta lavorando perché le performance siano ancora più potenti che in passato. Questi anni ci hanno dato la possibilità di crescere e capire dove poter essere particolarmente violenti in certi frangenti. Molti live del Teatro, in passato, sono stati caos, un caos anche emotivo. La mia volontà è quella di trasformare questo caos in qualcosa di intelligibile, ovvero che si senta bene e che faccia male.
La band ha fatto parte di una “scena” in qualche modo fotografata anche dal progetto discografico “Il paese è reale” pubblicato dagli Afterhours nel 2009 a cui il Teatro degli Orrori partecipò con il singolo “Refusenik”. Oggi di quella scena rimangono solo macerie?
Capovilla: “Refusenik” sono quei soldati israeliani che si rifiutano di fare la guerra ai palestinesi. Già a quei tempi parlavamo di questa tragedia, della guerra contro Gaza e la Cisgiordania. Le macerie della scena ci sono, per fortuna non sono quelle di Gaza, le nostre sono intellettuali: il rock non riesce a trovare lo spazio che vorrebbe. Sono corsi e ricorsi storici. Oggi vanno di moda il rap, la trap, che per me sono in larghissima parte spazzatura. Le case discografiche cavalcano quello che porta loro profitto facile, non c’è la volontà di spingere qualche cosa che porti cultura. Detto ciò delle case discografiche ce ne possiamo anche fregare. A noi interessa il nostro percorso fatto di buona musica, contenuto e un pizzico di poesia. Una poesia che ha a che fare con la verità. Pier Paolo Pasolini pagò con la vita la verità che portava avanti. Io credo che nella canzone popolare si possa fare qualche cosa di simile, sbattendo in faccia alla gente ciò che stiamo diventando, che non è incoraggiante. E quindi il messaggio ancora oggi è: rimbocchiamoci le maniche tutti insieme.
Favero: Il mondo, da quando stoppammo il progetto, dieci anni fa, è radicalmente cambiato. C’è stato l’avvento dell’indie che si è un po’ preso lo spazio di quel rock fatto in un certo modo. I gruppi rock di oggi in Italia sono quasi gli stessi di allora. I Maneskin sono un’altra cosa ancora, sappiamo il percorso che hanno fatto. Il mainstream è intaccato da altro, dall’indie, dal pop, dalla trap. Noi forse, verso la fine, abbiamo raccolto poca attenzione perché questa era rivolta verso altri fenomeni. Ma questo non vuol dire che il rock abbia smesso di ardere. Oggi a livello internazionale ci sono band come Idles e Fontaines D.C., gli Oasis sono tornati e riempiono gli stadi.
C’è da fare anche un mea culpa se quella scena italiana, oggi, non ha eredi?
Capovilla: Certo. Forse abbiamo mancato di costanza, forse il rock è una musica intergenerazionale che evidentemente parla a dei giovani a cui però oggi sembra interessare altro. Ma non c’è solo il mainstream a calpestare le nostre coscienze e quelle dei nostri ragazzi...dobbiamo tutti metterci a fare un rock dirompente. Vaffanculo a X Factor, alla musica preconfezionata, ai Maneskin, a tutta quella robaccia che con il rock non c’entra nulla, ma che riguarda solo la moda e i soldi, sti stramaledetti soldi.
Un pezzo che non vedete l’ora di suonare?
Capovilla: “È colpa mia”, che è proprio in linea con quello che stiamo dicendo. Io spero di vedere tanti giovani sotto il nostro palco. Di vedere anche tanti immigrati. Vorrei che la nostra musica raggiungesse davvero il cuore di tutti. La musica può contribuire a un risveglio delle coscienze. Se no a che cosa serve?
Favero: Le prime tre canzoni del primo disco: “Vita mia”, “Dio mio”, “E lei venne!” funzionano oggi come allora. Non ti nascondo che anche l’ultimo omonimo album, per quanto un po’ bistrattato, ci dà soddisfazione, penso a pezzi come “Lavorare stanca” e “Benzodiazepina”. Ed è quello che musicalmente e testualmente oggi sentiamo anche più vicino, purtroppo uscì nel momento sbagliato quando la gente era già distratta da altro. Poi, tornando alla scaletta, c’è il caso di una canzone, di cui non ti dirò il titolo, molto amata dal pubblico, che invece non ci convince più, o meglio non sappiamo perché ai tempi l’abbiamo fatta in quel modo (sorride, ndr).
In questi anni abbiamo visto tante reunion: dai CCCP ai Club Dogo fino ad arrivare, in grande, agli Oasis. Esiste una “monetizzazione della nostalgia”. Vi sentite di farne parte?
Capovilla: Io ho parlato dell’offerta economica perché bisogna essere franchi nella vita, ma noi non veniamo da Bon Jovi, dall’heavy metal o da che cazzo ne so. Noi ci rifacciamo a gruppi come i Dead Kennedys, Black Flag, Fugazi, Husker Du. Io nella mia vita ho imparato più cose dagli Husker Du che da Shakespeare. Ho imparato la compassione per la povera gente e per gli esclusi dalla canzone popolare. La canzone popolare suona le corde del cuore di chi ascolta: questa è poesia? Sì, forse è poesia. Questo per me è l’obiettivo della musica. Se il rock oggi diventa solo narcisismo, allora è utile solo per chi lo fa e non anche per chi lo ascolta. Noi vogliamo essere utili anche per chi ascolta.
Favero: Noi abbiamo ripreso in mano un discorso che aveva bisogno di riposo. L’accento sulla questione economica merita una riflessione più ampia. Prendiamo i CCCP, una band importante, che nonostante la storia che hanno costruito, hanno guadagnato meno di chi oggi, in alcuni casi, fa musica da tre anni. Se i CCCP decidono di tornare a fare live e mettono i biglietti a un certo prezzo, sulla base di quello che hanno realizzato in carriera, non è certo un problema. Bisogna sfatare il mito che l’arte e la cultura debbano essere gratuiti perché dando spago a questa narrativa siamo finiti ad avallare Spotify, che offre tutta la musica del mondo, pagando cifre irrisorie gli artisti. E poi ci si lamenta se quegli artisti, che non vendono più dischi, arrivano a battere cassa con i live per crearsi “una pensione”? Ma che problema c’è nel farlo? Poi c’è un altro discorso ancora: oggi molti live di artisti contemporanei sono degli enormi karaoke in cui chi sale sul palco fa poco o nulla, eppure i biglietti per quei karaoke costano tantissimo. E davanti a questo, c’è chi storce il naso per le reunion di band importanti?
Per voi che cos’è il rock? Che valore date a quello che fate?
Capovilla: Per me il rock è religione. Io sono un sacerdote, un officiante. Un concerto è una liturgia collettiva, un organismo vivente a sé. Il concerto lo fa anche il pubblico. In un live sembra di poter fare all’amore con la vita. Questo è quello che conta per me e, senz’altro, anche per gli altri del gruppo.
Favero: La musica che è prevalsa in questi anni è innocua, sia a livello testuale che musicale. Anche quelli che si fanno vedere nei video con le pistole, non fanno paura a nessuno. Un tempo, invece, alcuni artisti avevano la capacità di mettere in crisi il pubblico. Certo, uno può restare comodo, dentro la bolla di una musica non troppo alta a livello di volume e magari con il telefonino in mano: ecco, tutto ciò è l’opposto di quello che siamo noi. Noi vogliamo portare un po’ di sano acufene.