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Rettore: “Noi facciamo musica, è un privilegio”

Esce venerdì 10 il nuovo album “Antidiva putiferio”
Rettore: “Noi facciamo musica, è un privilegio”

Nel frattempo l’abbiamo vista in tv, in gara e ospite a Sanremo, ascoltata in vari singoli, ma da venerdì 10 gennaio, a distanza di quattordici anni, la Rettore torna con un disco intitolato “Antidiva Putiferio” (nella foto dell’articolo, la copertina di Flora Sala), nuovo, a rilascio lento, nel senso che raccoglie brani già di successo nel 2022 come “Chimica” con Ditonellapiaga e “Faccio da me” con Tancredi, oltre ai recenti singoli “Thelma & Louise” con Beatrice Quinta e “Disco Prosecco” (qui nella versione con Big Mama), e collaborazioni con La Sad e Marta Tenaglia. Dodici canzoni, idealmente collegate al lavoro del 2011 dove cantava che la vecchiaia è una grave malattia che colpisce anche i giovani: non dipende dall'età, è “l'inutile agonia dei nostalgici”. Caratterialmente, la vecchiaia non la riguarda. Anagraficamente compie settant’anni il prossimo luglio e, se uno non lo sapesse, se si limitasse ad ascoltarla, proprio non si direbbe.  Se “Cielo cabrio” lo cantasse Annalisa, se “Il senso del pericolo” lo facesse Ariete, di sicuro ci tormenterebbero in radio.

Il disco porta atmosfere anni '80 ma suoni attuali. C’è disco music, elettronica da ballare, una produzione affidata a Blaek Musk, EggWyte, il duo PLZ, oltre all’inseparabile Claudio Rego. Donatella Rettore è ancora la ragazzina “al contrario”, quella che sfidava le suore e che a unidici anni scappò a Milano per vedere gli Stones. Lo racconta in “Odio tutti”: “Sono nata diversa, nemmeno in orario, strillando di brutto fino a farmi male. Mi hanno battezzata senza il mio permesso. Con che risultato? Odio tutti lo stesso!”. «Vuol dire però che mi interesso a tutti» ci racconta in un pomeriggio romano «L’indifferenza non mi appartiene».

 

Rettore, ci si aspettava un disco di ballate, un ritorno alla canzone malinconica, magari alla Gabriella Ferri. Invece?

«Invece sono la solita me, casinista, chiassosa, un putiferio. Sono ancora così e penso ce ne sia bisogno. C’è troppa tristezza in giro. Questi brani sono tutti intrecciati come una sedia di vimini. Il filo rosso sono io, la vita reale, che per me è sempre stata metafisica, mistica»

Che intendi?

«La vita ti gira attorno. Da giovane il laccio è più largo, man mano si fa più stretto, ed è un motivo in più per celebrare la vita. Adesso. Now. Non è “famolo strano” ma “famolo subito”. Che poi era lo slogan di “Lamette”, mi gioco tutto con candore e furia».

In “Disco Prosecco” canti: “Finisce tutto nello Spritz c’est chic”. Non sembra così spensierato.

«A tutte le ore del giorno e della notte, girando per varie città, vedo gente fuori dal bar che si fa lo spritz. Doveva essere un aperitivo ma ha sostituito il grappino, forse per dimenticare le tante preoccupazioni di questo periodo. Comunque, questa è da sempre la mia cifra. I brani che fanno ballare non sono per forza sciocchi. Io non mi crogiolo nella tristezza né nella spensieratezza. La mia è musica moderna, del tempo che ogni volta vivo».

È il tempo del social, che però critichi.

«Lì tutti vogliono essere divi e si generano fenomeni senza sostanza. Invito a non essere socialpassivi ma vivi sin dal mattino. Fatevi un giro»

Spesso ci si dimentica cosa hai combinato nella carriera: “Laiolà” sulla liberazione sessuale femminile, “La Berta” sulla tua tata marxista, “Carmela” sulla rivoluzione spagnola, “Gaio” e “Splendido splendente” contro i pregiudizi di genere, “Il Patriarca” contro il patriarcato. Se oggi si possono cantare certe cose, lo si deve anche a te?

«Mi auguro di sì, mi presi delle belle responsabilità. Io però per certe critiche ci restavo male perché non sono mai stata una maliziosa. Aperta sì. Mi censurarono spesso, ma perché creava scandalo la mia “Kobra” e non “Il clarinetto” di Arbore? Perché a cantare il doppio senso era una donna. Le donne sono state mie grandi alleate sin dall’inizio. Si volevano liberare, si sentivano rappresentate».

Qualche femminista ti contestò.

«Avevo cantato “Il Patriarca” a un presidio a Piazza Campo De’ Fiori e me ne dissero di tutti i colori perché ero bionda tinta e truccata. Ma che una, per sembrare impegnata, deve buttarsi una boccetta d’olio in testa? È finita quella chiusura, per fortuna».

Nel disco hai assemblato una squadra di giovani, nessuno della tua generazione.

«Qualche collega me lo ha sconsigliato ma io detesto le barriere. E poi proprio i giovani, quando si unirono nel tributo “ClonAzioni- Tutti pazzi per Rettore”, mi riconobbero, mi fecero riscoprire me stessa, quindi stanno nel mio percorso».

Tante donne intorno a te.

«Sorellanza a oltranza, ma non solo. Mi piace portare avanti insieme certi argomenti, e mi piace trattarli alla mia età. Nel mio disco hanno tutti creato un grande smile, vero, interiore».

La più indie è Marta Tenaglia in “Ventilatore”. Per la prima volta prendi un pezzo di altri. Perché proprio questo?

«Io non sono una paroliera, sono l’autrice del mio mondo, con un linguaggio strano, tutto mio, ma Marta la trovo fantastica. Il suo è un brano in stile assolutamente rettoriano, buio come solo io so essere. Non tutto lo colgono, ma il mio dogma è sempre amore-morte».

Molto rettoriana è “Malamocco”, la tua “Sweet Dreams”.

«Nessuno voleva lasciarmela fare perché non la capivano. C’è dentro tutta la mia ironia: le zanzare fastidiose che ti uccidono, ti fanno grattare e ti creano disagio sono una metafora per i no vax, gli integralisti religiosi, quelli che sparano, eccetera». 

Antidiva lo sei da tempo: una famiglia sfollata ospitata da proletarissimi contadini, un padre socialista felice che ti esibissi alle feste dell’Avanti e dell’Unità. Mai guardie del corpo. Concerti nei centri sociali.

«Non sono mai stata una da bollicine, eppure era molto facile prendermi per una diva capricciosa. Ci giocavo su. Volevo essere comica, ma siccome il senso dell’umorismo non veniva riconosciuto alle donne, passavo per divoratrice di uomini o per presuntuosa. Poi per carità, ho avuto i miei momenti».

Fai “Beepolare” con La Sad. La depressione è un tema caro ai giovani artisti.

«Nella mia esperienza, la fase del picco è quella che mi ha indotto a più sbagli. Il successo è una girandola, se perdi il senso della realtà sei fregato. La cosa bella è che i giovani oggi se ne rendono conto, sono coscienti. Pensano: “Prima vengo io” e ne parlano».

Sei stata una delle nostre prime cantautrici. Difficile farselo riconoscere?

«Al principio la stampa mi definì “De Gregori in gonnella”, e poi fu proprio De Gregori a consigliarmi: “Scrivi quello che vuoi, non pensare mai se piacerà o no agli altri».

L’altro grande consiglio arrivò da Lucio Dalla.

«Mi regalò un bastone da pastore e disse: “Mena, ragassa!”. Sapeva che avrei dovuto farmi largo. Lucio mi chiamò ad aprire alcuni suoi concerti che ero ancora minorenne, da lui ho imparato questa curiosità verso i giovani. E anche da Franco Battiato, un antidivo. Lui, il maestro colto, venne a vedere in concerto me, la cantante alla moda. Fu un gesto importantissimo».

Altro sostegno arrivò da Tina Anselmi…

«Eccome! Staffetta partigiana, prima donna a diventare ministro della Repubblica italiana, era mia vicina di casa a Castelfranco Veneto, persona speciale. Si complimentava anche se non conosceva le mie canzoni. «A prescindere» mi diceva «Io tifo per i giovani». Noi italiani abbiamo perso una bella occasione: dovevamo farla Presidente».

Hai vissuto appieno la Londra anni ‘80. Eri una Blitz Kid, incontravi Steve Strange, Bowie, Adam Ant. Bei tempi?  

«Fantastici. Nessuno ambiva ad essere uguale all’altro. Se eri un tipo ordinario, il buttafuori non ti faceva entrare. La sera, nei locali gay, ero quasi sempre l’unica donna presente. Mi facevano entrare perché mi scambiavano per trans. Ma quelli sono stati attimi. Non mi dispiacerebbe avere 25 anni adesso. Essere giovani è sempre bellissimo».

Mai musicalmente nostalgica?

«No. Semmai mi spiace che la musica sia diventata praticamente gratis, sfruttata, non giustamente retribuita e considerata. Alle mie ragazze e ai miei ragazzi ho consigliato di non diventare troppo bravi, di cercare l’imperfezione, altrimenti rischiano di non comunicare più, di cantarsi addosso. Dico: sbagliate qualcosa, deve uscire un po’ di sangue da qualche parte».

Non vedi troppa omologazione?

«C’è anche sperimentazione, se la cerchi. Ricordo che negli anni ‘80 tutti rimpiangevano gli anni ‘60 e io rispondevo: “Ma allora noi, esattamente, a cosa serviamo?”. È il 2025 ed è giusto che i giovani reclamino il loro posto, la loro importanza».

Hai provato ad andare a Sanremo quest’anno?

«No, la gara non l’ho mai amata. La prima volta feci un casino. Era il 1974, portavo “Capelli sciolti”, ma la strofa era lenta e mi annoiavo così tanto che la saltai e passai direttamente al ritornello, mandando fuori tempo l’orchestra».

Cosa c’è nel tuo futuro?

«Un tour da maggio, un documentario sulla mia vita, anche se meriterebbe più un film. Sai che divertimento! Poi ho la trasmissione “Ora o mai più” in onda da sabato su Rai1, un format in cui mi ritrovo completamente, fatto a modo mio. Voglio aiutare veramente i giovani artisti. Non so dare direzioni, sono la prima ad essere istintiva nella musica, ma posso dare sostegno, e qualche punto di vista»

Tipo?

«Esiste il successo, ma non esiste l’insuccesso. Perché noi facciamo musica. Noi creiamo. Il fatto che generiamo una cosa che prima non c’era è già un successo, un privilegio. Il fatto che gli altri non lo capiscano, fa parte del programma».

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