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"Rompi il silenzio": intervista a Sethu

La salute mentale nell’industria musicale italiana
"Rompi il silenzio": intervista a Sethu
Credits: Arianna Raffaelli

I panel e i workshop tenutisi durante l’ottava edizione della Milano Music Week hanno affrontato svariate tematiche, dall’intelligenza artificiale generativa alla musica da film. Tra queste, si è parlato anche di salute mentale, un argomento affrontato da Rockol per il terzo anno consecutivo, insieme ai suoi ospiti. Di seguito, l’intervista di Gianni Sibilla a Sethu.

Che cos'è per te la salute mentale nel tuo percorso di artista?
È una domanda che mi pongo spesso. Durante la mia vita ho sempre vissuto molto “nella mia testa”. Ho imparato che la salute mentale è una forma di benessere, un equilibrio tra le due facce della medaglia che tutti abbiamo. L’equilibrio perfetto non esiste: è un continuo imparare a rimanere in bilico, conoscendo i propri limiti e, soprattutto, imparando a conoscersi.

L'equilibrio, per definizione, va continuamente ricalibrato. Tu come riconosci quando questi ondeggiamenti che ti portano da una parte all'altra, diventano troppo pericolosi? Quando un disagio rischia di trasformarsi in patologia?
Visualizzo tutto come una sorta di ferita. È normale ferirsi, ci sono delle ferite dentro che non bisogna trascurare per non far sì che faccia l'infezione e diventano difficili da curare. Io mi considero una persona fragile, mi ferisco facilmente, ma questi “ondeggiamenti” mi rendono umano. La terapia mi ha aiutato tanto a fare, è come essere funzionale in tutte, con me stesso, ecco, a funzionare.

Hai menzionato la terapia, che è fondamentale ma spesso ancora stigmatizzata. Come hai usato la musica per affrontare i tuoi disagi? Il tuo primo album, Tutti i colori del buio, è una narrazione aperta dei tuoi stati mentali. Come sei arrivato a usare la musica in maniera così aperta per raccontare un disagio?
Fin da piccolo ho avuto un rapporto complesso con me stesso, e la musica, essendo la mia vita, si è inevitabilmente intrecciata con questo racconto. La mia vita è impregnata di questo, e di conseguenza anche la mia musica, che è letteralmente la mia vita, forse l'unica cosa che mi riesce bene… forse! Fin da piccolo mi sono sentito molto solo, con tutte le problematiche che affrontavo. Raccontarle in musica, specialmente quando ricevo certi feedback dalle persone, in particolare dai più giovani, diventa un modo anche per andare oltre la musica e cercare di aiutare.

Apparteniamo a generazioni diverse: la mia è cresciuta con l’idea che certe cose non andassero raccontate, dovevano rimanere dietro le quinte. Mi ricordo di aver letto un’intervista a Joni Mitchell, che ha scritto Blue, uno dei capolavori della musica, e le veniva rimproverato di essersi aperta troppo. Eppure, quel tipo di introspezione ha prodotto uno dei più grandi capolavori.  Quando racconti, senti che ti stai esponendo troppo o ti percepisci quasi come un personaggio, creando un distacco dalle storie che racconti?
Non lo so, davvero. Chi mi conosce sa che non ho problemi a parlare di me. Non ho costruito un personaggio, cosa che può essere sia positiva che negativa. Racconto le cose così come sono, senza filtri: come lo racconto a te, lo racconto agli altri. Penso che essere aperti e vulnerabili sia molto utile. Lo dico anche in Tutti i colori del buio: aprirsi è un passo verso il convivere meglio con se stessi, un atto di coscienza. Ho iniziato a stare male già a 9-10 anni ed essere in quel mondo di bambini mi faceva sentire isolato. Però parlare, ogni volta che mi apro con qualcuno su una ferita, anche senza appesantire troppo la conversazione, aiuta anche me.

Il tuo album è nato anche dopo l’esperienza di Sanremo. È stata una tappa importante, ma anche psicologicamente pesante. Ce ne vuoi parlare?
È un discorso un po’ complesso. Non è che l’esperienza di Sanremo sia stata pesante di per sé. Sanremo era qualcosa che, per me, apparteneva ai sogni più lontani. Eppure, quando quel sogno è diventato realtà, non ha guarito certe ferite. Questo mi ha spaventato: non è stata l’esperienza in sé a pesare, ma il rendermi conto che nessun successo può colmare un vuoto che puoi riempire solo lavorando su te stesso. È stato questo a dare il via a Tutti i colori del buio. Sono tornato in terapia perché non stavo bene, capisci? E devo dire che tornare in terapia mi ha aiutato tantissimo.

Parli di questi temi anche con altri artisti?
Quando capita, ne parlo volentieri. Non come cantanti, ma come persone. Le pressioni che affrontiamo sono simili, soprattutto quelle che ci mettiamo addosso da soli.

Tu come ti relazioni con il racconto che viene fatto del tuo percorso e della tua musica? Te lo chiedo perché la mia generazione ha scoperto i social solo successivamente, mentre voi ci siete nati dentro: è il vostro mondo, e da lì deriva una pressione sociale enorme.
Indubbiamente. Gli effetti dei social sulla nostra generazione si stanno già studiando, e sicuramente verranno approfonditi ancora di più in futuro. È un fenomeno impressionante, perché entri in un mondo che ti mostra solo ciò che vuole farti vedere. Come dicevo, questo impatta soprattutto gli artisti, ma non solo: ormai viviamo in funzione dei numeri. Apri un social e vedi quanto ha fatto qualcun altro rispetto a quanto hai fatto tu. Ogni giorno sei esposto a metriche come il numero di follower, che diventano un confronto costante con gli altri. È molto facile cadere in questo paragone continuo. Tuttavia, alla fine di tutto, ho capito una cosa importante, che si ricollega anche alla mia esperienza a Sanremo: ognuno ha il proprio "orologio", il proprio tempo. Questa è forse la cosa più difficile da accettare: che ognuno ha i suoi tempi per fare le cose, per crescere.

Pensi che la pandemia sia stata un momento di svolta per la tua generazione su questi temi?
Sì, sicuramente la pandemia ha messo ancora più in luce certe dinamiche. Anche se è stato ripetuto mille volte, resta vero che, quando sei costretto a rallentare e a trascorrere più tempo con te stesso, fuori dai ritmi frenetici a cui siamo abituati, inizi a vedere con chiarezza alcune problematiche che magari prima non conoscevi. Molti hanno cominciato a sperimentare episodi di ansia o panico proprio in quel periodo. Io purtroppo li ho vissuti già molto prima, ma ho visto tanti miei coetanei affrontare i primi episodi durante la pandemia, e lo capisco benissimo. La sensazione di non avere una via d'uscita è stata forte. Tuttavia, se c'è qualcosa di positivo che possiamo trarre da questa esperienza, è la consapevolezza dell'importanza di parlarne. Come dicevo, è un vero e proprio atto di coscienza: abbiamo vissuto tutti qualcosa di particolare, ma in qualche modo anche di condiviso.

Questo tema rimarrà centrale nella tua musica?
Sì, assolutamente. Come ti dicevo, voglio offrire un racconto completo, perché non credo esistano solo luci o solo ombre. Nel mio percorso, così come in Tutti i colori del buio, non c’è solo disagio. Attualmente, sto attraversando un periodo di guarigione, quindi il prossimo album e le nuove canzoni rifletteranno anche questo. Non voglio necessariamente accendere un faro solo sul "sto male, sto male, sto male", ma raccontare anche il processo di convivenza con il dolore, di uscita e di ripresa. Esiste un modo per farcela, ed è importante sottolinearlo. Ci tengo davvero a dirlo. E quindi, niente, questo è il percorso.

 

Questo contenuto fa parte della campagna di sensibilizzazione di Rockol sulla salute mentale : “Rompi il silenzio” - La salute mentale nell’industria musicale italiana - #oltrelostigma

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