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"Lateral": c’era una volta “Cool Britannia”

L’ultima grande festa della musica pop. Parte prima.
"Lateral": c’era una volta “Cool Britannia”

Lateral è un appuntamento periodico di Rockol per attraversare la storia della musica popolare, alta e bassa, e offrirne una vista, appunto, laterale. Da leggere, commentare e ascoltare con la playlist dedicata. Questo episodio è dedicato alla fine degli amori nelle canzoni pop e rock, italiane e straniere.

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Inghilterra, inizio anni Novanta. C’è voglia di lasciarsi alle spalle conflitti sociali, miserie e desolazioni del decennio precedente. L’orgoglio nazionale si risveglia, il vento si colora, è di nuovo swinging London. Arte, creatività, cinema e moda guidano un vero e proprio rinascimento culturale che sa un po’ di revanscismo. Tony Blair, Nick Hornby, Hugh Grant, Union Jack. La cultura pop sostituisce le navi, alla ricerca di una nuova forma di imperialismo. È Cool Britannia. La musica inglese torna a dominare le radio e le etichette discografiche si inginocchiano per qualsiasi band con un suono di chitarra, un bel taglio di capelli e un parka. Tra laddismo e squali in formalina, champagne socialism, pinte di lager e fiumi di cocaina, due paia di occhi azzurri domineranno la scena, in una rivalità che travolgerà i media ed entrerà nella vita della gente. Finirà con una serie di guerre tra bande: Blur vs. Suede, Blur vs. Oasis, nord vs. sud, scuole medie vs. licei artistici. Quarant’anni dopo, il primo ministro britannico è di nuovo un laburista e gli Oasis annunciano la reunion. Cosa è stato davvero il Brit Pop? Una scena costruita ad arte? Un vicolo cieco di musica derivativa? Un calderone per tutte le band britanniche con chitarre della metà anni '90? Se il Britpop è stato davvero qualcosa, non ci sono due persone che pensano esattamente la stessa cosa. Questa è una storia in due parti che cerca di raccontare il cambiamento di un paese. Nello spazio di 2 anni.

Prima parte

Quando l’8 agosto 1992 Morrissey sale sul palco del Finsbury Park come supporter dei Madness e sventola la Union Jack mentre canta “National Front Disco”, i “boo” del pubblico si moltiplicano e volano bottigliette di plastica. Il cantante degli Smiths dà le spalle al pubblico e quando viene raggiunto da un oggetto che lo colpisce alla schiena lascia il palco e se ne va, cancellando la data della sera successiva. Nel numero del New Musical Express che esce pochi giorni dopo, la rivista dedica a Morrissey la copertina e i toni sono molto critici, in un momento storico in cui la bandiera britannica evoca partiti di estrema destra, sentimenti nazionalisti e razzisti. Inizia da qui un auto-esilio di Morrissey che non concederà interviste a NME per 12 anni. Difficile immaginare che la Union Jack possa diventare uno dei simboli dell’ultimo movimento pop capace di entrare profondamente nella cultura popolare, anche se più o meno nello stesso periodo, Brett Anderson dei neoformati Suede dichiara al Melody Maker "tutti i grandi artisti pop britannici, dai Beatles ai Fall, hanno celebrato la Gran Bretagna in qualche modo. Non sono minimamente attratto da New York.”

All’inizio degli anni Novanta, il mondo, il Regno Unito e la musica vivono la fine del periodo di transizione tra la vita analogica e quella digitale. Internet non c’è, i social media tanto meno, le novità arrivano in edicola sulle riviste, Boris Johnson scrive per il Daily Telegraph e i cellulari sono solo uno status symbol. La musica che conta si chiama grunge e arriva dagli Stati Uniti, con un’oscillazione verso ovest del pendolo dell’innovazione che alternativamente si ferma su Gran Bretagna e USA. È nata più o meno a Seattle nell’estremo nord ovest del paese, una città che non ha mai prodotto prima una scena musicale importante. Le band, perché sono tutti gruppi, incidono per la stessa casa discografica, suonano insieme, vivono in un clima tardo hippie di grande comunione. Tra di loro c’è quella che sarà in seguito spesso definita come l’ultima grande band rock, con l’ultima grande rockstar e l’ultimo grande album rock. Sono i Nirvana di Kurt Cobain, in tutte le radio del mondo nel periodo e su tutte le riviste.

Gli artisti prodotti dal mondo alternativo britannico non hanno più successo, in una scena  che si trascina stancamente tra boy band e l’affievolirsi della scena dance. Mancano personaggi davvero carismatici, capaci di far parlare di sè oltre la musica. Tutto è permeato da un senso di malessere culturale che si riflette politicamente nella leadership politica di John Major, leader di quei Conservatori al comando del paese ininterrottamente dal 1979. La Gran Bretagna è un posto grigio e deprimente in cui vivere.

Guardandola più da vicino, la musica inglese vive il classico momento di mezzo che aveva già caratterizzato la fine dei decenni precedenti. La grande promessa indie degli Smiths, sciolti nel 1987, non è stata mantenuta. Gli Stone Roses che sembrava avessero preso il loro posto implodono dopo il primo anno e uno dei concerti più iconici di tutti i tempi sul suolo inglese. Come gli Smiths e i Joy Division vengono da Manchester e sono uno dei tanti gruppi prima e dopo di loro ad auto-definirsi la più grande band del mondo, addirittura più grandi dei Beatles. Nel maggio del 1990 scelgono un’isoletta nell’estuario del fiume Mersey, Spike Island, per un concerto che darà il via a tutti i grandi raduni outdoor sul suolo inglese degli anni Novanta. Che sia il più bello o il più brutto concerto della storia (l’impianto non va benissimo, la band sembra annoiata), per i 30.000 che partecipano rimarrà un ricordo indelebile. La band chiude il live con “I Am The Resurrection”, ma per il loro ritorno sulle scene bisognerà aspettare più dei canonici tre giorni. Entrano in studio per il famigerato secondo album e faranno il concerto successivo solo cinque anni dopo, in un mondo che non sarà più il loro. Anche loro non saranno i nuovi Beatles e l’Inghilterra rimane terra di conquista del grunge.

Dal punto di vista politico, le cose non vanno meglio. Alla fine degli anni Ottanta, il governo Tory di Margaret Thatcher, già famoso per le attenzioni riservate ai lavoratori del Regno, tenta di applicare una nuova imposta ad aliquota fissa. Ufficialmente, la tassa si chiama “Community Charge”, ma in tutto il Regno Unito viene soprannominata Poll Tax, come una tassa estremamente impopolare che aveva scatenato una rivolta dei contadini nel 1381. L’imposta richiede gli stessi versamenti da tutti a prescindere dal reddito. Parecchie persone non possono permettersi di pagarla e, fin dall’inizio, molti si oppongono. Il 31 marzo del 1990 il movimento contro la Poll Tax raggiunge il picco con un’imponente rivolta che distrugge vaste aree del centro di Londra. Una manifestazione che si sarebbe dovuta concludere a Trafalgar Square con 60.000 persone ne raccoglie cinque volte di più. Interviene la polizia a cavallo. Cariche, incendi, tafferugli sino alle 3 del mattino. Banche e negozi con insegne di brand globali attaccati. A causa della rivolta che si espande in tutto il paese, cade il Governo conservatore di Margaret Thatcher e le succede John Major.  Nonostante la vittoria alle elezioni del 1992, il governo conservatore è agonizzante e non sembra bastare annunciare l’abolizione della Poll Tax.

Nella ricerca di qualcosa che possa risollevare il Regno Unito, viene in soccorso la musica. La stampa specializzata ha bisogno dell’ennesima next big thing per giustificare la sua esistenza, in un mercato dove il gaming sta rapidamente guadagnando terreno come nuova cultura pop dominante, in buona compagnia di fumetti, piercing e tatuaggi. Tutte le riviste sono disperatamente alla ricerca di nuovi movimenti per competere con il grunge americano. Nascono lo shoegaze, la new wave della new wave, ma niente sembra funzionare. Serve qualcuno che possa innescare il tutto, e questo qualcuno arriva.

La storia del Britpop è fatta da uomini ma, per molti versi, gira intorno a una donna. Justine Frischmann è la bassista di un gruppo – gli Suede -  che vede alla voce e ai testi uno studioso di urbanistica che vive a Londra e che di nome fa Brett Anderson. I due stanno insieme ma dopo mesi di corte di un altro bel ragazzo, Damon Albarn dei Blur, già un po’ famoso, Justine prende il basso e se ne va, portando qualche idea della band con sé.  Anderson, consumato dalla gelosia, trova improvvisamente una vera motivazione per la sua vita. Insieme a Bernard Butler, il suo chitarrista adolescente, mette tutto sé stesso per diventare non solo più grande dei Blur, ma creare il team autore/compositore più acclamato del paese, i nuovi Morrissey/Marr. Appaiono su diciannove copertine di riviste musicali ancora prima prima di pubblicare il primo album. Tra le altre quella del numero del 21 aprile 1992 di Melody Maker, con il titolo che recita “Suede: The Best New Band in Britain”. La band che dà inizio al Britpop (ma che rifiuterà sempre sdegnosamente di farne parte) non ha alcuno dei tratti che caratterizzeranno la scena a venire. I riferimenti musicali ed estetici attingono a piene mani dalla tradizione glam e dai Settanta, considerati capaci di esprimere una complessità paragonabile ai Novanta molto più dei magnifici Sixties. I primi tre singoli – “The Drowners”, “Metal Mickey”, “Animal Nitrate” – sembrano outtakes di “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” e con il loro incedere flessuoso, sexy, e l’approccio pulito agli arrangiamenti appaiono l’esatto opposto della musica dance tardo Madchester. Non ci sono grafiche strane, titoli scritti a mano, bandiere pirata o faccine, piuttosto un’estetica ultra glamour e androgina. L’altra chiara influenza oltre a Bowie è Morrissey, soprattutto in termini di attitudine. Quasi a confermarlo, Brett Anderson se ne esce con una frase che sembra un mix di citazioni dei due dichiarando di essere “un bisessuale che non ha mai avuto un'esperienza omosessuale”.

Tutti vogliono un po’ di Suede, anche la rivista Select, che quando nell’aprile 1993 pubblica la famigerata copertina ha solo tre anni di vita e un disperato bisogno di affermazione. Nel paese si è creata un’energia e un’atmosfera di possibilità e di attesa che una copertina oggettivamente brutta riesce a sublimare. Con un titolo che recita “Yanks Go Home” e il cantante Brett Anderson sovrapposto (a sua insaputa) alla Union Jack, la rivista dedica dodici pagine a Suede, Pulp, St Etienne, Denim e Auteurs, insomma a tutta la musica che diventerà poi una parte non marginale del Britpop, anche se il termine ancora non compare. All’appello mancano gli Oasis, ancora sconosciuti, e i Blur visti ancora come parenti più o meno artsy del mondo danzereccio di Manchester. Una raffigurazione molto efficace anche se, da un punto di vista grafico e concettuale, agli antipodi del rigore artistico dei Suede che in contemporanea pubblicano il primo disco, con un bacio lesbico in copertina. Diventa l'album di debutto con le maggiori vendite in Inghilterra dai tempi di “Welcome To The Pleasure Dome” dei Frankie Goes To Hollywood. La scena nascente ancora senza nome sta andando overground. Nel giro di tre anni, la musica suonata con la chitarre in una versione esplicitamente nostalgica dominerà le copertine delle riviste, musicali e non. I Levi's bootcut entreranno nei negozi e la Union Jack diventerà un accessorio accettabile per la prima volta dagli anni Sessanta.

Il successo dei Suede è il perfetto acceleratore per l’orgoglio di quel ragazzo biondo che ha creato con Justine Frischmann la coppia per eccellenza del Britpop. I suoi riferimenti musicali sono molteplici, tra l’immancabile Bowie, Syd Barrett, Kevin Ayers e l'indie americano degli anni Ottanta. La sua band, i Blur, è in giro da un po’ e vive l’inizio degli anni Novanta con una costante tensione competitiva verso tutti e tutto. Il primo album è ancora parente della scena dance di Manchester, ma quando lo portano in tour negli Stati Uniti nel 1992, Damon Albarn è preso da una intensa nostalgia di casa, vive le serate ubriacandosi nelle camere di albergo e ascoltando ininterrottamente “Waterloo Sunset” dei Kinks. Tornato a casa, trova gli Suede sulle copertine di tutte le riviste. Non lo può sopportare, si reinventa paladino di inglesità e trascorre il 1992 a creare un suono simile agli Suede per il secondo album. I Blur ripensano anche la loro immagine, lasciando da parte i pantaloni larghi e riprendendo confidenza con il guardaroba della loro adolescenza. È il momento di giacche a tre bottoni, polo Fred Perry e Dr. Martens, in una riproposizione del look del mod di periferia di fine anni Settanta. Damon Albarn, nato e cresciuto nell'Essex, per essere più vicino agli strati sociali popolari sceglie di proiettare un personaggio cockney e di parlare di conseguenza, nella prima delle innumerevoli trasformazioni che lo accompagneranno per tutta la vita, camaleontico quasi al pari di Bowie.Dopo avere esplorato le nozioni base di Britishness in “Modern Life Is Rubbish”, i Blur scrivono la loro vera e propria tesi di laurea con il terzo disco, “Parklife”, che li lancia definitivamente in orbita. Tra i due album, compaiono sulla copertina del numero del Melody Maker del 25 settembre 1993 con la scritta “English Dreamers”. Poco sotto si parla di “Britpop ‘93”: entra in uso un termine ragionevolmente vago che rimarrà nel tempo un espediente utile per descrivere una manciata di gruppi chitarristici della metà degli anni Novanta la cui musica mostra una fedeltà agli ideali di orecchiabilità e concisione della metà degli anni Sessanta. Una definizione che, come osserverà in seguito Elvis Costello, lusingherà gli artisti peggiori e insulterà i migliori.

“Parklife” è il primo album del trittico decisivo per l’affermazione del Britpop. Sintetizza un emergente senso di orgoglio nazionale misto alla rabbia giovanile e da una prospettiva allo stesso tempo distaccata e satirica. I Blur costruiscono un collegamento tra le scuole d'arte, la musica dance indie e il mainstream, quasi una versione pop dell’esperimento tentato dai Nirvana pochi anni prima. L’album è preceduto dal singolo “Girls & Boys”, prodotto impeccabile capace di combinare liriche maliziose con una produzione perfetta per i club che ricorda i primi Duran Duran. Il pezzo entra in classifica al numero cinque e il gruppo annuncia ufficialmente al mondo la sua rinascita. L’album è però molto di più, con la spazialità cinematografica e quasi lounge di “To the End” e il disinvolto sarcasmo della title track che racconta la gente del parco, offrendo uno spaccato della vita britannica con jogger intregralisti in adidas, piccioni e spazzini. Tra rumori ambientali e frammenti dell’inno tedesco, c’è spazio anche per la voce cockney di Phil Daniels, una delle star di “Quadrophenia” e un eroe per i revivalisti mod. “Parklife” suona molto più vario del primo album dei Suede – un tratto che accompagnerà i Blur per tutta la loro storia - e diventa inevitabile nella Gran Bretagna del 1994 quasi quanto "Thriller" dieci anni prima. I Blur girano incessantemente il paese e alla fine si trovano headliner dei festival con un mare di persone che si vestono come loro e cantano tutte le parole delle canzoni. È nato quel senso di comunione che accompagnerà tutta la storia del Britpop, la celebrazione di un’estetica, di un suono e di un patrimonio culturale condivisi.

Kurt Cobain viene trovato morto l'8 aprile 1994, e il numero successivo di The Face ha Damon Albarn in copertina e l’ennesima Union Jack alle sue spalle a confermare la sensazione che l'epicentro di una guitar music credibile si stia spostando dagli Stati Uniti al Regno Unito. La scomparsa del leader dei Nirvana lascia un vuoto nella scena musicale mondiale e come è sempre successo, l’industria, i fans, le riviste musicali hanno bisogno di qualcuno che lo possa riempire.

L’ambiente è favorevole alla nuova scena e i media sono pronti per capitalizzarlo e alimentarlo. La stampa musicale è avida di inserire qualunque nuova band nel calderone del Britpop. Tra i tanti c’è anche una band di Manchester che si è formata nel 1982 come gli Smiths ma arriva al momento di massimo successo proprio tra il 1992 e il 1994, con canzoni che sembrano veri e propri inni, accompagnati da liriche ricche di osservazioni sociali sulla cultura britannica, la vita quotidiana e il patrimonio musicale del paese. Nel 1993, i James iniziano un nuovo viaggio guidato da Brian Eno che finisce per essere più un guru che un produttore, contribuendo ad allontanarli più o meno definitivamente dalle spiagge del Britpop. Nelle sei settimane di ritiro monastico nei Real World Studios, l’ex Roxy Music non risparmia nessuna delle sue celebri strategie oblique e quando i James pubblicano il nuovo album nel 1993 – con i singoli “Sometimes” e “Laid”, il brano che dà il titolo al disco -, sono una delle band più intelligenti della Gran Bretagna e sfondano anche negli Stati Uniti. Non avranno più un successo come questo, ma lasceranno agli annali della musica un altro contributo, scegliendo come supporto per il loro tour una giovane band chiamata Radiohead. È diventa quasi inevitabile anche per la band di Oxford essere trascinati sul carrozzone del Britpop con il debutto di “Pablo Honey” e soprattutto il loro primo successo, “Creep”, inciso quasi per caso mentre la band si trova in sala per provare una nuova canzone scritta dal cantante. Non sanno però che il nastro del mixer sta girando e registrando l’esibizione. Questa canzone, registrata in un'unica versione spontanea, diventa allo stesso tempo il loro primo singolo di successo e la maledizione per la prima fase della loro carriera. Qualcuno cercherà, senza riuscirci, di ricondurre a forza i Radiohead nell’alveo del Britpop anche alla pubblicazione del loro secondo album “The Bend”.

Appare già uno dei tratti che sembra accomunare tutte le band: sono composte da giovani uomini che si trovano a vivere un momento di rivoluzione estetica che all’atteggiamento distaccato, iper cool e talvolta impegnato degli Ottanta sta per sostituirne uno dove farsi crescere di nuovo i capelli e sudare copiosamente è tornato di moda. La parola d’ordine è “disimpegno” e a codificarne i contenuti arriva Sean O'Hagan – ex Microdisney e alle prese con la sua nuova creatura, gli High Llamas – che conia l'espressione "New Lad" in un pezzo che scrive su Arena nel 1993 intitolato "The Re-invented Man". È possibile essere un ragazzo e non vergognarsi di avere come principali interessi il calcio, le ragazze, bere, fumare e divertirsi. Il momento è perfetto perché gli astri si allineino: poche settimane dopo la pubblicazione di “Girls & Boys” esce il primo numero di “Loaded”, con in copertina Gary Oldman e il tag "superlad". La rivista nasce come celebrazione del “laddismo”, un atteggiamento anti-intellettuale che privilegia cose che dovrebbero essere tipicamente maschili: il calcio, bere, parlare di donne in modo sessista. Il primo editoriale recita "Loaded è una nuova rivista dedicata alla vita, alla libertà e alla ricerca del sesso, all'alcol, al calcio e a questioni meno serie. Loaded è musica, film, relazioni, umorismo, viaggi, sport, notizie dure e cultura popolare. Loaded è andare in discoteca, bere, giocare e mangiare. Loaded è per l'uomo che crede di poter fare qualsiasi cosa, se solo non avesse i postumi di una sbornia". Lo slogan è “Per gli uomini che dovrebbero saperne di più”. All’interno del primo numero c’è un’intervista a Paul Weller e due pagine dedicate a Liz Hurley. All’inizio, il tono è quasi di auto-parodia e si cerca di evitare l’oggettivazione della donna da pagina tre del Sun, ma le sfumature cadono presto. La direzione del nuovo momento è contenuta in una delle citazioni zeitgeist rilasciate da Damon Albarn: "Ho iniziato a leggere Nabokov – e ora mi do al calcio, corse di cani e ragazze dell’Essex."

L’ennesima mutazione di Albarn, sempre più spesso ripreso con una football jersey, si deve però inchinare all’ingresso sulla scena dei veri superlad del Britpop che in perfetta contemporaneità all’apparizione di Loaded sfornano il loro primo singolo, “Supersonic”.  Se si potesse avere la perfetta incarnazione di un approccio anti-intellettuale alla musica e alla vita, i fratelli Gallagher di Burnage, sobborgo della classe operaia di Manchester – ma con sangue irlandese nelle vene – vincerebbero a mani basse. Il loro unico riferimento culturale è Sifters, un negozio di dischi vicino casa. Non sono andati al liceo, non hanno un padre con una società di consulenza di design e una galleria d’arte come Damon Albarn. Anzi, un padre non ce l’hanno proprio perché la madre lo ha lasciato, stanca dei maltrattamenti. Nel pantheon di Noel Gallagher, quello dei due che scrive le canzoni, ci sono due raccolte (pensate solo alla reazione di Morrissey con la sua collezione di artisti dimenticati): gli album rosso e blu dei Beatles e "The Wall" dei Pink Floyd. Proprio i quattro baronetti erano i grandi assenti tra i riferimenti delle band che avevano iniziato a popolare l’arena del Britpop. Anni Sessanta, sì, ma i Beatles sembravano davvero troppo per tutti e, a dirla tutta, erano stati un po’ dimenticati durante il punk, il post punk, la new wave e tutte le scene alternative che erano seguite. Fino a quando non arrivano gli Oasis, che dimostrano di averli ascoltati parecchio e di saperli prendere e mischiare con gli Slade e gli Status Quo, per creare una musica fragorosa, potente e fatta per divertirsi. Noel Gallagher porta l'abilità di riscrivere i suoi riff preferiti e creare qualcosa di nuovo e irresistibile e, soprattutto, di centrifugare e semplificare 30 anni di musica inglese. Il fratello Liam ha di gran lunga la voce più forte nel Britpop. Sono loro che effettivamente rappresenteranno nel tempo più di qualunque altra band il suono che immediatamente sarà associato al Britpop. Gli Oasis riempiono un vuoto nella cultura pop dell’epoca: sono del nord e hanno un atteggiamento “maschio” che sembrava andato perduto.

Firmano per la Creation, ma la gestazione del primo album è travagliata: cinque diversi studi di registrazione, sessioni interrotte, canzoni composte in studio all'ultimo secondo e un cast infinito di ingegneri, produttori e mixer. Il 30 agosto 1994 esce finalmente “Definitely Maybe” che vola subito al numero uno delle classifiche britanniche. Per la copertina, sono ancora i Beatles a fornire l’ispirazione. Noel si ricorda il retro dell'album “Oldies (But Goldies)” e vuole uno scatto come quello con gli Oasis seduti intorno a un tavolo. Per qualche motivo decidono che deve essere fatto in casa di Bonehead, il bassista. In copertina, accanto a un bicchiere di Ribena compaiono una serie di icone che richiamano i gusti della band, dal calciatore del Manchester City ai film western di Sergio Leone, passando per George Best e Burt Bacharach. I due fratelli – con Liam sdraiato per terra con gli occhi chiusi e Noel l’unico a guardare verso l’obiettivo – mostrano già i segni di quella incredibile self confidence che li accompagnerà negli anni. L’album vende 100.000 copie solo nei primi quattro giorni. L’album è potente e fresco, il suo sound pop rock entusiasma e il successo è travolgente: sette dischi di platino. È il secondo album che gli Stone Roses non sono ancora riusciti a fare, dove l’”io” di Ian Brown, ma anche lo sguardo distaccato dei “lui e lei” e dei “loro” di Albarn, lasciano spazio all’ “io e te” e al “noi” di Noel Gallagher. Le canzoni riescono a creare un fortissimo meccanismo di identificazione da parte di chi le ascolta, mantenendosi nel contempo davvero aspirazionali mentre raccontano di una vita senza uscita per la classe operaia, salvo fantasie di fama e fortuna. Nell’album c’è anche il primo vero capolavoro di Noel Gallagher che sembra ci metta poco più di dieci minuti per scriverla. Canzone simbolo non solo della band, ma di un’intera generazione di fan, che la voteranno in massa fino a farla eleggere, nel 2006, la più grande canzone di tutti i tempi sulle pagine di «Q Magazine». Pare che proprio dopo aver sentito una versione embrionale di “Live Forever”, nel 1991, Liam chieda per la prima volta al fratello di entrare nella sua band. Una parola “maybe”, che ormai nella musica pop rimanda a questa canzone, è presente all’inizio di ogni strofa e ogni ritornello o presunto tale. Una ballata piena d’ottimismo che si contrappone al nichilismo grunge per ammissione dello stesso autore e che si apre con una dedica a Peggy Gallagher, madre dei due fratelli. Trionfo e vulnerabilità in quattro minuti e trentasei secondi. Pochi mesi prima, Kurt Cobain aveva lasciato il mondo con le parole di Neil Young “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. Noel risponde con “Voglio vivere per sempre”.

Con la loro sfrenata aggressività quotidiana, i tabloid popolari impazziscono per gli eccessi e gli screzi dei due fratelli Gallagher. A capire subito l’aria che tira è ancora The Face che nell’agosto 1994 dedica la copertina a un giovanissimo Liam Gallagher, con la headline che riesce a fare la sintesi di trent’anni di musica pop "Never mind the bollocks, here’s the Sex Beatles ".

L’accoppiata “Definitely Maybe” e “Parklife” determina il momento di svolta della scena inglese e forse il punto più alto e puro del Britpop, prestando la colonna sonora a un orgoglio nazionale che non si vedeva dalla Swinging London degli anni Sessanta. Londra è di nuovo il centro del mondo. Musica. Moda. Letteratura. Arte. Industria creativa. Calcio (terminata la squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni europee per i fatti dell’Heysel, la Premier League diventa il campionato più seguito del mondo). Se a caldo si parla di Britpop, più in là si comincerà a usare la tagline “Cool Britannia”. Un movimento di grande fermento artistico e culturale capace di scuotere il Paese dalle fondamenta, non limitandosi solo alle classi popolari o alle élite culturali. I sudditi di Sua Maestà riscoprono che British is cool dovunque. Nel cinema, ad esempio. Il 1994 è l’anno di “Quattro matrimoni e un funerale”, commedia sofisticata, tripudio dello humour inglese, che consacra la stella di Hugh Grant. Passano pochi mesi ed esce il primo romanzo di Nick Hornby, “Alta Fedeltà”, dove peraltro la musica è assoluta protagonista.

Nel mentre, la Gran Bretagna è all’opera per la ridefinizione politica di sé stessa dopo oltre quindici anni di governo conservatore. Il 12 maggio del 1994 il segretario del Partito Laburista inglese, John Smith, muore improvvisamente d’infarto. Ha soli 56 anni, ma sembra il padre del suo successore. Tony Blair diventa il nuovo leader della sinistra inglese a 41 anni, nell’estate del 1994. Ha tratti kennediani, è scozzese come il predecessore ma sembra venire da un altro mondo per modi, approcci, riferimenti culturali. È laureato in giurisprudenza, ma è stato anche chitarrista e cantante in una rock band e forse questo è l’elemento più importante di tutti per quanto accadrà in seguito. "New Labour, New Britain" diventa il nuovo slogan di Blair e del suo fedele portavoce e spin doctor, Alastair Campbell. Li unirà l’imperativo pragmatico di riformulare il Partito e dire forte e chiaro al popolo britannico che il vecchio Partito Laburista, rifiutato e perdente, è cambiato. È diventato un moderno partito politico di sinistra - o forse di centro, magari anche di centro-destra - che indossa abiti  cool, giovane e socialmente progressista. Da subito inizia una pre-luna di miele con il paese riuscendo, dall’opposizione, a infondere una nuova fiducia.

Quando sembra che si sia formata la sacra trimurti del Britpop – Suede, Blur e Oasis -, la band di Brett Anderson è la prima a rifiutare la classificazione e si stacca definitivamente dal movimento con il secondo album. Solo un anno dopo il primo disco, i Suede, fedeli non sono alla musica ma anche ai cliché di inizio Settanta, sprofondano nell'oblio dell’eroina – “I’m 18, and I need my heroine” -, mentre lo scontro tra Anderson e il chitarrista e co-autore Bernard Butler arriva al punto che i due si trovano a collaborare per posta alla stesura delle nuove canzoni. “Dog Man Star” è il disco anti-Britpop per eccellenza, appartenente alla categoria degli album maledetti e folli capaci di portare una band all’autodistruzione. Una sinfonia torbida e massimalista, costantemente in precario equilibrio tra grandezza e magniloquenza. Ancora incompiuto quando Butler lascia la band, è un album di rottura con arrangiamenti imprevedibili e testi melodrammatici in continuo contrasto, quasi un'eco della discordia tra i suoi creatori. La produzione è iper-compressa e il disco suona metallico, ma in alcune ballads (fra tutte “The Wild Ones”) la band è ancora magnifica e la voce di Anderson risuona unica nel panorama inglese del decennio. Quale altra band dopo il successo improvviso e clamoroso del primo album sarebbe capace di progettare un simile seguito?  

I primi candidati a sostituire i Suede alla guida del carrozzone del Britpop sono gli Elastica, formati da Justine Frischmann dopo essere stata cacciata dai Suede per il suo ménage à trois con Brett e Damon. Non contenta di essere la ragione alla base del primo album dei Suede – in seguito, anche “13” dei Blur parlerà di lei e della fine del suo amore con Damon Albarn – decide di fare un suo gruppo. In un mondo dominato da band interamente maschili, ne crea una sua, per tre quarti composta da donne. Nel 1995, il primo album omonimo andrà direttamente al numero uno, diventando il debutto britannico più venduto di sempre nella prima settimana di pubblicazione. Per un breve periodo la band britannica più celebrata in America (battendo tutti i colleghi maschi Oasis, Pulp, Blur e Suede), al centro di una guerra tra le etichette statunitensi che vede la Geffen vincitrice. Canzoni brevi – spesso poco superiori ai 2 minuti, come “Connection” -, calcolate e un pizzico arroganti, una sorta di versione raffreddata dei Blur con chiare influenze fine Settanta, Wire tra tutti.

 

La scena che si va consolidando ha già alcuni chiari tratti: sono tutte band, sono inglesi – del resto del regno non c’è praticamente nulla -  e la loro vita ruota principalmente intorno a Londra, con l’eccezione degli Oasis. Suonano pezzi basati sulla chitarra, con le strutture musicali tipiche della canzone rock (introduzione, strofa, ritornello, bridge, ecc.), in una derivazione della scena indie degli anni Ottanta. Debuttano con un’etichetta indie, ma forti di accordi distributivi capaci di supportare le vendite meglio di quanto potesse fare la Rough Trade con gli Smiths negli anni Ottanta. Saccheggiano con perizia quarant'anni di cultura pop britannica per creare qualcosa che suoni contemporaneo e diverso dall’altra musica in circolazione fino a poco tempo prima. Le influenze sono molteplici e includono il movimento Mod (Who, Kinks, Small Faces), il glam degli anni '70 (David Bowie, T.Rex, Roxy Music), il punk e la New Wave (Jam, Buzzcocks, Wire, Madness, Squeeze, Elvis Costello), gli Stone Roses,  gli Smiths e i Beatles. Sono portatori, per la prima volta nella storia della musica pop, di un atteggiamento intimamente regressivo che porta inevitabilmente alla rivalutazione di una serie di artisti che la critica sembra riscoprire ed elevare a un livello superiore, da Dusty Springfield, ai Kinks fino agli alfieri del folk rock britannico, come Sandy Denny e Nick Drake, fino a quel momento dimenticati da quasi tutti. Tutto quello che suona davvero “inglese” viene tolto dagli scaffali impolverati alla ricerca di probabili e improbabili influenze sulla scena attuale.  Detto questo, le band del Britpop suonano tutte diverse e ascoltando “Suede”, “Parklife” e “Definitely Maybe” in qualunque precedente periodo storico nessuno si sarebbe sognato di catalogarli all’interno dello stesso movimento.

Con la fine della prima parte di questo racconto siamo arrivati al Natale '94. I Blur hanno venduto un milione di dischi, gli Oasis qualcosa di più e arrivano per la prima volta al numero tre della classifica dei singoli con “Whatever”, una canzone che è un po’ “All You Need Is Love” e un po’ “I Am the Walrus”, con l’intenzione di “Hey Jude”. Quasi un teaser per il primo capitolo della “Beatles Anthology” che uscirà l’anno dopo. La normalizzazione sembra dietro l’angolo e nulla lascia presagire quello che succederà nel 1995, quando il movimento arriverà al suo zenith e al pressoché immediato disfacimento. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

Al link una playlist che raccoglie le canzoni della prima parte questa storia di Lateral.

Seconda parte.

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