John Mayall, in missione per conto del blues
Nei primi anni '60 alcuni grandi bluesmen neri che suonavano in acustico nel Delta e in elettrico a Chicago faticavano a ottenere un concerto fuori dal loro ghetto, eppure accendevano l'immaginazione di alcuni giovani musicisti bianchi in Inghilterra. Soprattutto quella di Cyril Davies Alexis Korner e John Mayall.
Quest’ultimo - nato a Macclesfield, cresciuto a Manchester e figlio di un buon chitarrista jazz - divenne presto autodidatta in pianoforte, chitarra e armonica.
Frequentato il junior art college, nel 1956 fondò i Powerhouse Four, un gruppo R&B; lavorò poi come vetrinista per un grande magazzino prima, in un'agenzia pubblicitaria poi e, infine, rispose alla chiamata dell'esercito che lo spedì a combattere in Corea.
Rientrato in patria a 29 anni, prima formò i Blues Syndicate a Manchester e poi, persuaso da Alexis Korner a trasferirsi a Londra, nel 1963 diede vita nella capitale ai Bluesbreakers.
Fu così che divenne il Padrino del Blues Britannico.
Mayall, Korner e Davies facevano parte della scena trad jazz: il loro interesse per il blues nacque qui e si diffuse in Inghilterra – che diversamente dall’America non era segregata razzialmente – perché quella musica parlava ai ragazzi britannici senza i preconcetti che la limitavano nella terra madre.
L’idolo e mentore di John Mayall fu JB Lenoir, che gli insegnò a cantare della sua vita e del suo tempo più ancora di bluesmen di maggiore caratura come Elmore James e Freddie King. Il messaggio, il metodo, lo spirito del blues divennero e restarono parte integrante dell’arte di Mayall, al punto che la veemenza nell’esecuzione e la padronanza del genere gli valsero il rispetto incondizionato dei migliori musicisti e maestri del Delta e di Chicago.
La sua qualità si condensa al meglio in "Blues from Laurel Canyon", "Bare Wires" e "Looking Back", prodotti quando verso la fine degli anni '60 si trasferì in California: negli album alcuni tributi ai suoi eroi si mescolano a originali dai quali emerge un suo suono inimitabile e fondamentale. La magia di appartenere alla tradizione senza essere legato in particolare a nessuno.
Ma, a quel punto, la sua vicenda artistica era già mito da anni.
Il suo primo album, il live "John Mayall plays John Mayall", era uscito nel 1965. Poi, nel 1966, Mayall pubblicò un secondo album – “Blues Breakers” – in partnership cone un giovane chitarrista tormentato che suonava la Gibson come Dio. Noto ai più come “The Beano Album” (“Beano” era il fumetto che Slow Hand leggeva sulla copertina del disco), il disco fece prima la storia del genere, poi divenne il vero “blue print” dello stile chitarristico blues britannico e infine, come è giusto che sia, divenne leggenda.
Eric Clapton non sarebbe stato che la prima presenza illustre e iconica della mitica formazione di Mayall, che nel tempo avrebbe incluso anche Jack Bruce (poi con Clapton e Ginger Baker nei Cream), Peter Green, Mick Fleetwood e John McVie (futuri Fleetwood Mac), Mick Taylor (futuro compare di Keith Richards nel periodo d’oro dei Rolling Stones), Keef Hartley e Aynsley Dunbar.
Chiunque fosse qualcuno nel blues britannico ruotava dell'orbita di Mayall.
Una volta diventato il Padrino del genere oltre Manica, utilizzò la sua posizione per attirare l'attenzione su artisti ingiustamente meno conosciuti.
Mentore, musicista, autore, polistrumentista. Ma, forse, soprattutto bandleader, un maestro nell’amalgama di un suono blues che risultava perfetto per il talento disponibile al momento.
John Mayall è vissuto in missione per conto del blues molto prima che il concetto fosse fatto proprio in maniera ilare e geniale da John Belushi e Dan Aykroyd.
E quella missione era scolpita proprio nel nome della sua band: così come “to break a record” significava far conoscere un disco, i Bluesbreakers erano coloro che affermano il blues, potremmo dire.
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