Perché i rapper a un certo punto vogliono fare pop?

Nasci rapper e cresci cantante pop. È una parabola tutt’altro che fantastica o favolistica, ma anzi sempre più sdoganata e reale, soprattutto da quando il rap ha assaporato le vette del mainstream, il pop se ne è accorto e non solo l’ha abbracciato, ma lo ha anche morso come un vampiro, trasformandolo. L’ultimo a essere finito sul braciere dei puristi è stato Tedua che, con il suo “Paradiso”, la deluxe de “La Divina Commedia”, si è aperto, solcando melodie più ampie, cantando e facendo pezzi d’amore in maggioranza dal piglio radiofonico. Ma il punto, lasciando fuori dalla discussione un radicalismo inutile e nocivo, non è giocare con il pop, ma è il come lo si fa. Il rap, da sempre, si contamina, si mischia con altre influenze, il contagio, inteso come contagiare ed essere contagiato, è nella sua natura più profonda.
La sensazione, però, è che molti rapper di oggi, soprattutto diversi di nuova generazione, per accelerare la scalata, lo facciano scimmiottando gli stilemi del genere pop senza una reale identità, con il solo obiettivo di allargare la propria fanbase, di essere passati maggiormente dalla radio, di arrivare a solcare il palco dell’Ariston e, banalmente, di riuscire a essere accettati da un pubblico che non avrebbero mai intercettato se non così. Pare che, a un certo punto della carriera, il rap non basti più per sentirsi “artisti”, quasi ci fosse un immotivato complesso di inferiorità nei confronti del pop. Ma torniamo al punto centrale: è il come si sfornano potenziali hit più aperte il cuore del ragionamento perché la hit più pop, in sé, non ha motivo per essere demistificata. Prendiamo Fabri Fibra: un artista capace, da “In Italia” fino a “Propaganda” di sfornare brani più accomodanti musicalmente in cui, però, testualmente inserisce significati e parole tutt’altro che rassicuranti, talvolta velenose. È la sua specialità. Si canta spensierati, ma si canta la tragedia.
Fibra è l’emblema del come si possa sfondare nel mainstream, ma senza finire a fare banali canzoncine d’amore, rimanendo legati a quelle che tutti i rapper dovrebbero difendere: le radici dell’hip hop. C’è chi in quel campionato ad alto tasso di mainstream ci è finito con un incidente, vedi il caso di “Superclassico” di Ernia, che però rimane un rapper che non ha voluto cavalcare in modo troppo esagerato quell’onda, chi ha saputo giocarsi le sue carte in modo intelligente, si legga alla voce “Cenere” di Lazza, la vera canzone vincitrice del Festival di Sanremo 2023, e chi lo ha fatto con un timbro di appartenenza e autenticità particolare: “Crazy love” di Marracash. Questi sono casi molto differenti tra loro, ma virtuosi. Quest’ultimo, in particolare, “Crazy love”, è un pezzo senz’altro pop d'amore, ma musicalmente e liricamente ricco di personalità e perfettamente integrato nel disco “Noi, loro, gli altri”. E questo fa la differenza, in modo sostanziale. È un pezzo di Marracash, non è Marracash che canta, come se fosse un cosplayer, un brano pop. Questo tipo di approccio dovrebbe essere un faro.
Si possono fare canzoni più aperte mantenendo i propri abiti. Ed è quello che succede anche tra le pieghe della carriera di big internazionali: Eminem, Kanye West, 50 Cent, Drake, per fare esempi diversi tra loro, hanno realizzato, chi più o chi meno, diverse hit dal tiro più morbido, o sfruttando ritornelloni magari femminili o melodie più aperte, ma spesso figlie evidenti del loro estro. L’inseguire i canoni pop, senza una reale consapevolezza, mettendo a soqquadro la propria identità, spesso viene giustificato dietro la foglia di fico della “versatilità” o della “sperimentazione”. La verità è che è materia incandescente, pericolosa, soprattutto quando non è legata a “episodi”: per un rapper buttarsi dentro un altro campo da gioco, in modo magari premeditato, a tavolino, ma senza idee o peggio con idee copiate da altri, rischia di disorientare il pubblico per poi finire a creare crisi anche nello stesso artista.