Beatles, il ritorno del film "Let it be": la recensione

Ricordo bene quando vidi per la prima volta "Let it be". Fu al cinema Moretto di Brescia, nel 1970: l'edizione italiana si intitolava "Let it be - Un giorno con i Beatles". Non ero ancora diciassettenne, e avevo cominciato a interessarmi ai Beatles da pochi anni, da quando mi era stato regalato il 45 giri di "Penny Lane" /"Strawberry Fields forever", ma nel giro di alcuni mesi ero riuscito a recuperare (e registrare con il Gelosino a bobina) quasi tutti i loro album usciti in precedenza, mentre avevo acquistato il "doppio bianco", "Abbey Road" e "Let it be" - l'album (e anche "Hey Jude", la compilation uscita nella primavera del 1970). Ovviamente la notizia dello scioglimento dei Beatles mi era arrivata dall'immancabile settimanale "Ciao 2001", e mi aveva deluso e addolorato. Altrettanto ovviamente il film non potevo perdermelo, e andai al cinema munito di un registratore a cassette (prestato dall'amico Giorgio Madella) con il quale salvai l'intero audio della pellicola, dialoghi compresi. All'epoca non sapevo ancora molto dei Beatles, la mia competenza si sarebbe costruita nel tempo; ma dopo aver trasferito sulla bobina del Gelosino l'audiocassetta registrata al Moretto la riascoltai più volte, senza capire quasi nulla dei dialoghi (colpa del mio inglese allora pressoché inesistente) e, ogni volta, dispiacendomi del fatto che il gruppo avesse cessato l'attività (pur se speravo che lo scioglimento potesse essere provvisorio).
Anche per questo motivo "Let it be", il film, aveva per me il senso di qualcosa di malinconico, se non di luttuoso. Il gestore del cinema Moretto mi aveva procurato il manifesto del film, che per molti anni rimase appeso nella mia camera-studio (è andato perduto, purtroppo, in qualche trasloco). Il regista del film, Michael Lindsay-Hogg, l'aveva girato in 16mm, e per la versione cinematografica il film era stato "gonfiato" a 35mm, accentuando così la grana delle immagini, il che aumentava ulteriormente il senso di qualcosa che ormai apparteneva al passato, come accade per i filmini delle vacanze girati in SuperOtto.
Qualche anno dopo il film fu trasmesso dalla RAI, e non mancai di videoregistrarlo (con un videoregistratore Betamax, anche questo prestato da un amico; lo stesso con il quale videoregistrai tutto il "Live Aid"), per poi, più avanti, trasferirlo su VHS. Ma non credo di averlo mai rivisto, da allora.
"Let it be" non arrivò mai a una distribuzione ufficiale su supporto video in Italia - uscì negli Stati Uniti su VHS, Betamax e LaserDisc nel 1981, e su videodisco nel 1982, e durante gli anni Ottanta su VHS e Betamax in Germania e Olanda - poi sostanzialmente sparì dalla circolazione per quarant'anni. Quando nell'ottobre del 2021 venne trasmesso da Disney+ il lungo documentario di "Get back", quello diretto da Peter Jackson, cominciò a circolare la voce che presto anche "Let il be" - quello diretto da Michael Lindsay-Hogg - sarebbe tornato in qualche modo disponibile. Sono passati più di due anni, e finalmente ci siamo arrivati: "Let it be" sarà trasmesso domani, otto maggio, da Disney+, che cortesemente ci ha mandato un link per poterlo vedere e scriverne in anteprima.
Quando venne reso disponibile "Get Back", si disse e si scrisse che le quasi otto ore del documentario certificavano come la nomea che aveva perseguitato "Let it be" - quella di essere la testimonianza del periodo più buio della storia del gruppo, e dei dissidi interni che l'avevano portato allo scioglimento - fosse motivata, e che il lavoro di Peter Jackson (che aveva avuto accesso a oltre cinquantasei ore di filmati inediti e centocinquanta ore di audio, e li aveva restaurati con l'uso del MAL, Machine Assisted Learning, ripulendo l'audio e il video con risultati prodigiosi, benché forse "troppo" prodigiosi) dimostrava come in realtà nel mese trascorso all'inizio del 1969 - prima negli Twickenham Studios, poi nello studio di registrazione di Savile Row - le relazioni all'interno del quartetto non fossero state sempre così tese come erano apparse da "Let it be".
In un'intervista del 16 aprile 2024 al "New York Times", Lindsay-Hogg racconta di aver parlato a lungo con Peter Jackson (che si è preso cura del restauro di "Let it be") e di avergli chiesto di lavorarci in maniera meno, come dire, invasiva, per restituirgli l'aspetto che aveva in origine, più analogico che digitale, senza esagerare nella modernizzazione (esagerazione della quale è stato, anche giustamente, accusato "Get Back", che sembra girato ieri e non nel 1969).
A proposito dell'atmosfera complessiva del suo "Let It Be", Lindsay-Hogg, oggi ottantatreenne, dice:
"Se lo guardi senza preconcetti, il film funziona bene, ed è ovvio che quelli che vedi sono quattro uomini che si conoscono fin dall'adolescenza - tre di loro, almeno - e che si vogliono bene come fratelli. Ma non erano più i Fab Four, un paio di loro avevano quasi trent'anni. Avevano smesso di fare tournées, che è un gran cambiamento per un gruppo rock. Quello che vedi nel mio film è che fra loro quattro c'è un affetto immutabile. Ma all'epoca vivevano vite quasi separate. Durante le riprese non ho mai avuto la sensazione che stessero per sciogliersi. Pensavo che sarebbero andati un po' per le loro strade personali, pubblicando dischi da solisti, per poi ritrovarsi. Non avevo pensato che si sarebbero sciolti, finché non è successo".
Rivisto oggi, mentre scrivo, "Let it be" - in effetti - perde quella cappa di cupore che gli si era depositata addosso nella mia memoria. Dal punto di vista filmico, va detto, non è un capolavoro. Del resto Lindsay-Hogg era un regista di video ("Paperback writer", "Rain", "Hey Jude", "Revolution"; aveva in curriculum il documentario "Rock and roll circus" dei Rolling Stones, girato due anni prima, e in precedenza aveva diretto serie televisive - ma anche il programma musicale della BBC "Ready, Steady, Go!" nel 1965), e nel montaggio del sovrabbondante materiale che si era trovato fra le mani dopo le riprese del gennaio 1969 si era evidentemente trovato in difficoltà - anche se sarebbe interessante poter vedere la prima versione del montato di "Let it be", che era assai più lunga, almeno di un'ora ("C'era molto più materiale di John e Yoko, e gli altri tre pensarono che non fosse il caso, sicché venne tagliato").
Quel che manca, in sostanza, è una "narrazione", come si direbbe oggi, un filo conduttore che accompagni lo spettatore lungo l'evolversi della vicenda - e anche le scene incluse non seguono un andamento cronologico, se si esclude la suddivisione del documentario in tre blocchi distinti: quello iniziale, girato a Twickenham; quello centrale, girato negli studi di registrazione della Apple; e quello conclusivo, con il "rooftop concert". Ognuno di essi ha un "colore": il nero e il viola il primo, il bianco il secondo, e il grigiazzurro del cielo il terzo. Oggi sappiamo così tante cose su quelle quattro settimane di gennaio - esiste persino una serie di CD bootleg con tutto l'audio registrato dalla troupe televisiva! - che ci stupisce non trovarci la documentazione del momento in cui Harrison lasciò (provvisoriamente) il gruppo ("See you 'round the clubs"). Così, i momenti salienti dell'ora e venti di durata complessiva - il "rooftop concert" della terza parte fa storia a sè; lo si è visto e rivisto mille volte su YouTube - rimangono una serie di sequenze scollegate.
L'apertura, con Mal Evans, il fedelissimo roadie dei Beatles, che entra a Twickenhan portando la pelle della grancassa della batteria di Ringo (lo rivedremo poi battere con un martello su un'incudine, in "Maxwell's silver hammer"); la prima esecuzione di "Two of us", con John e Paul che cantano nello stesso microfono una canzone che evidentemente parla di loro due, guardandosi negli occhi e scherzando (mentre Yoko Ono, per una volta a distanza, li guarda quasi stupita della loro "bromance"); "I me mine", con John e Yoko che ballano il valzer; George che aiuta Ringo a mettere insieme la melodia di "Octopus's garden", sotto lo sguardo benevolo di George Martin; il tuffo nel passato rock'n'roll con il medley di "Rip it up", "Shake rattle and roll", "Kansas City, "Miss Ann" e "Lawdy Miss Clawdy", che è un momento di pura allegria. E l'uno-due di "Let it be" e "The long and winding road", suonate in quattro (anzi in cinque, con Billy Preston), che senza le dolciastre sovrapposizioni orchestrali aggiunte da Phil Spector per l'album "Let it be" ritrovano la loro nuda bellezza melodica.
Il concerto sul tetto del 30 gennaio 1969, l'ho già detto, è una conclusione in gloria. Lindsay-Hogg:
"E che fortuna che l'ultima frase del film sia quella pronunciata da John, sul tetto, dopo l'intervento della polizia: 'I would like to say thank you on behalf of the group and ourselves and I hope we’ve passed the audition'. Perché se qualcuno ha superato il provino, in quel decennio, sono stati i Beatles".
La maggior parte di voi che mi avete letto fin qui, ne sono certo, non ha mai visto "Let it be": beh, guardatelo da domani su Disney+. E fate attenzione dopo cinque minuti e cinquanta: c'è Paul che suona una variazione sull'"Adagio per archi" di Samuel Barber al piano Bluthner, alla sua sinista c'è Ringo che lo ascolta, e davanti a lui, poggiata sul pianoforte, quella che sembra una premonizione: una mela verde, sbocconcellata.