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“Alla fiera dell’est” raccontato da Maurizio Fabrizio

Per l’album di Branduardi, il musicista è stato coproduttore, arrangiatore e direttore d’orchestra
“Alla fiera dell’est” raccontato da Maurizio Fabrizio

Il menestrello della canzone italiana arriva a festeggiare i cinquant’anni di carriera (il suo primo, eponimo album uscì nel gennaio del 1974). Per l’occasione Universal Music ripubblica il suo terzo album, “Alla fiera dell’Est”, uscito nel 1976, nella variante doppio album, che comprende anche la versione in inglese del disco, “Highdown Fair”, con i testi tradotti da Pete Sinfield dei King Crimson.

Abbiamo intervistato il coproduttore, arrangiatore e direttore d'orchestra di quell'album, Maurizio Fabrizio.

 

Cosa ricordi della genesi di “Alla fiera dell'Est”?

In realtà ho ricordi un po' vaghi - parliamo di quasi cinquant'anni fa... Lo abbiamo registrato in un piccolo studio di Milano, il Sax Record, dove precedentemente io e Angelo avevamo inciso il suo primo album, poi sfortunatamente bloccato dalla casa discografica. Nel 1976 ci tornammo e ci trovammo molto bene, c'era un'atmosfera gioiosa e un tecnico con cui si lavorava ottimamente: Alfredo Di Muro. Poi i bravissimi musicisti, Gigi Cappellotto al basso, Andy Surdi alla batteria, Gianni Nocenzi del Banco, Bruno de Filippi, che era veramente incredibile, unico nel suo genere perché suonava veramente di tutto. La cosa che ricordo con più affetto di quei giorni è che durante la lavorazione nacque la prima figlia di Angelo, festeggiammo tutti insieme.

 

Da quello che mi ha raccontato Angelo, registravate con la massima libertà, senza pressioni.

Sì, era un modo di lavorare veramente positivo proprio perché i fratelli Zard, che erano i produttori esecutivi, ci davano carta bianca, si fidavano ciecamente e non si intromisero mai, eravamo veramente liberi di fare quello che volevamo, sperimentando anche nuovi impasti sonori. Il lavoro si svolgeva in maniera coesa con i musicisti che partecipavano alle sessioni, io portavo le mie idee di arrangiamento ma poi se ne discuteva in studio, si cambiavano le cose. Alla fine di mio rimanevano fissi gli arrangiamenti per l'orchestra di archi e fiati.

 

Come lavoravate tu e Angelo?

Lui mi lasciava delle cassette con i brani eseguiti con chitarra e voce, e poi io lavoravo agli arrangiamenti. Mi dava carta bianca per tutto, con la massima fiducia.

 

Scrivevi le parti di ogni strumento, anche della batteria?

Di tutto: poi, come ti dicevo prima, in studio si cambiavano magari alcune cose.

 

In studio facevate le basi in diretta?

Sì, con chitarra, basso e batteria.

 

Niente click, immagino…

No, allora non esisteva proprio il click, non si sapeva neanche cosa fosse.

 

Sono curioso di sapere come facevi a fare andare a tempo un'orchestra intera quando la sovraincidevate sugli altri strumenti

Lì dipendeva soprattutto dalla bravura del batterista, che doveva tenere un ritmo costante dall'inizio alla fine. Poi io mi occupavo di dirigere l'orchestra stando attento a tutte le sfumature, comprese le fluttuazioni di tempo che potevano esserci nei vari brani. I musicisti dell'orchestra comunque erano bravissimi, bastava dirigerli bene.

 

Mi racconti di come vi siete conosciuti tu e Angelo?

Guarda, è stato un incontro meraviglioso perché io e lui abitavamo nello stesso quartiere di Milano senza conoscerci. Però io lo vedevo spesso perché usava girare con un motorino, vestito con una tuta blu, credo di velluto, molto particolare. Poi aveva questi capelli… insomma, era uno che non passava inosservato. Io lo guardavo passare e mi chiedevo «Chissà chi è questo ragazzo?».

Un giorno mi chiamò un mio amico produttore interno della RCA di Roma, Mario Gennari, e mi disse «Guarda, Maurizio, ti devo far conoscere un ragazzo che scrive musica straordinaria, come arrangiatore saresti perfetto per lui». Io fui incuriosito e così organizzammo un incontro nell'ufficio delle edizioni Come Il Vento, con le quali collaboravo. A un certo punto si apre la porta e me lo vedo davanti: era lui, lo strano ragazzo con tuta e motorino.

Che storia incredibile.

Ho capito immediatamente che Angelo era una persona straordinaria, ci intendemmo all'istante e fu subito amicizia. Da lì ci mettemmo al lavoro per il disco che poi non è stato pubblicato.

Un vero peccato...

Sì, è un album che mi piaceva molto, ma per qualche strana ragione in RCA non lo accolsero bene ed è rimasto per sempre nel cassetto.

Ricordi quale fu il primo brano su cui lavoraste?

Fu “Confessioni di un malandrino”, che era stata pensata proprio per quel disco e poi è finito su “La luna”.

Però non hai partecipato all'album del 1974

No, perché in quello c'era Paul Buckmaster a occuparsi di tutto; finita quell'esperienza però io e Angelo ci siamo riavvicinati e non ci siamo più persi di vista.

Trovo sopraffini gli arrangiamenti di “La luna”, sembrano vicini al pop etnico di Peter Gabriel.

Probabilmente sì, però io non sono un grande ascoltatore di dischi altrui, quindi se c'è stata un'influenza è stata del tutto inconscia.

In realtà tu vieni prima; “La luna” è del 1975, mentre Gabriel comincerà i suoi esperimenti con la world music solo nel 1980.

Allora mi fa piacere essere stato avanti coi tempi.

Anche in “Alla fiera dell'est” c'è un suono aperto a diverse influenze.

La musica di Angelo mi ispirava molto, e quindi mi sbizzarrivo; partivo da atmosfere rinascimentali, medievali, e da lì ci infilavo di tutto, dalla musica barocca, alle classica e a vari ritmi del mondo.

Quanto pensi abbiano influito gli arrangiamenti nel successo di questo disco?

Gli arrangiamenti sono una delle componenti di un album di successo, insieme alla musica, ai testi e all'interpretazione. Nel caso di Angelo hanno veramente una parte importante e mi fa un immenso piacere avere contribuito al successo di quest'opera e di Angelo, che se lo merita tutto perché è un grande artista, oltre che una gran bella persona.

Hai ricordi di qualche pezzo in particolare di “Alla fiera dell'est”?

Di un pezzo in particolare no, mi piacevano tutti. Ricordo però che ci divertimmo un sacco a fare proprio “Alla fiera dell'Est”, perché questa filastrocca che si ripeteva ci dava la possibilità di inventare cose nuove a ogni ritornello.

Ti aspettavi il successo di questa canzone?

Guarda, all'epoca io ero molto giovane, avevo 24 anni, e non mi aspettavo nulla. Sapevo solo che in studio ci divertivamo molto e tutto quello che arrivava era buono. Naturalmente il successo è stato molto piacevole, il fatto che abbia scalato le classifiche fu meraviglioso. Da lì in poi abbiamo fatto dei bellissimi tour.

Avete veramente girato tantissimo insieme.

Abbiamo suonato in un sacco di posti, ricordo la sala di Vienna dove fanno il concerto di Capodanno, il Circus Krone a Monaco di Baviera, la Plaza de Toros di Madrid. Ci siamo esibiti in teatri, stadi, in chiese sconsacrate, addirittura una volta da un balcone e un'altra, in Germania, in una stalla.

Come sai bene a un certo punto Angelo ha cercato di staccarsi dai suoi successi e sperimentare nuove forme musicali; come hai visto questa evoluzione?

Quello che Angelo componeva erano cose che gli venivano dal cuore, non ha mai realizzato brani di proposito per cercare il successo. Essendo una persona molto preparata, intelligente e sensibile, forse a un certo punto si è reso conto che era necessario esplorare nuove strade. È stato naturale, bisognava andare avanti, sperimentare cose nuove, pur rimanendo Angelo Branduardi; mantenendo il suo stile, la sua personalità.

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