I Depeche Mode e "Memento mori"

In copertina due ali di angelo, composte da fiori, come corone mortuarie. Sul retro del cd, due sedie vuote e un teschio su un tavolo. Il titolo: “Ricordati che devi morire”. In questo modo i Depeche Mode sono tornati il 24 marzo dello scorso anno. E se qualcuno avesse pensato che il titolo, "Memento mori", sia dovuto alla prematura scomparsa del loro compagno di sempre Andy Fletcher nel maggio 2022, ebbene è fuori strada: titolo e tema del disco erano state pianificate prima della morte di Andy. Nella giornata di oggi "Memento mori" compie un anno, proprio mentre la band torna in tour in Italia per la seconda volta in pochi mesi. A tra poco per la recensione concerto di Torino di ieri, intanto questa qui sotto è la recensione che pubblicammo 365 giorni orsono.
Chi sono e come suonano i Depeche Mode nel 2023? Martin Gore e Dave Gahan, certo. Non c'è più Fletch, scomparso all'improvviso l'anno scorso. Ma "Memento mori" non è un disco sul compagno scomparso: l’album era già stato scritto da Gore e Gahan prima, il titolo già deciso. Il paradosso è che questo è l'album più classicamente Depeche della produzione della band dagli anni zero in poi. Fletch è presente in spirito (in una delle foto del CD c'è una terza ombra, mentre Gahan e Gore guardano all'orizzonte): era fondamentale nelle dinamiche della band, era l'ingegnere del gruppo, anche se il suo ruolo efffettivo in studio sul palco è stato a lungo oggetto di discussione. Ma il dato incontrovertibile è che Gore e Gahan hanno trovato un nuovo equilibrio, e funziona. Eccome se funziona.
"Memento mori" è un album con un suono più omogeno, con un ritorno ad un elettronica classica, rivisitata con l'esperienza attuale: come il precedente è stato prodotto da James Ford (Simian Mobile Disco, Last Shadow Puppets), che suona in diverse canzoni, con il contributo di Marta Salogni e quello di Richard Butler (Psychedelic Furs), co-autore di 4 brani Martin Gore. Si sentono le chitarre (come nel singolo "Ghost again") e si sentono gli archi di Davide Rossi, come in “Don’t Say You Love Me”. Ma il vero centro dell'album è il suono sintetico: beat, ritmiche cupe, spesso quasi meccaniche, alla Kraftwerk, su cui si innestano le voci: un suono ben esemplificato da "My cosmos is mine", che apre l'album. In "Never Let Me Go" arrivano quasi a ricordare i Joy Division di “She’s lost control”.
Le canzoni, come anticipato dal titolo, parlano di mortalità “Everything seems hollow/When you watch another angel die”, cantano in "Wagging tongue", echeggiando la copertina: due ali di angelo come corona mortuaria. E poi, in generale, un approccio più personale e meno politico di "Spirit". Canzoni che raccontano la fragilità umana, come in "Before we drown" (“I feel so naked, standing on the shore/Are you sure nothing's out there, nothing else/ no more/ First we stand up, then we fall down/We have to move forward, before we drown") o l'amore come salvezza in "Always you" (““My love, the world's upside down/My love, no solid ground/My love, there are no more facts/My love, reality's cracked/and then there's you/There’s always you/You're all I need to keep believing/ And then there’s you/There's always you”). Non sono temi originalissimi, se vogliamo, ma sono i Depeche Mode: Gahan e Gore, con il loro carisma, danno una veste unica a questi racconti.
È presto per dire dove si colloca “Memento mori” nella discografia del gruppo, ma la prima impressione è ottima, decisamente migliore rispetto a "Spirit": l'album del 2017, riascoltato oggi, ha canzoni decisamente più deboli. "Memento mori" andrà ascoltato un po' di volte, lasciato decantare. I Depeche Mode esorcizzano la morte, elaborano il lutto, ma sono vivi e vegeti.