Jack Antonoff: “Io, Taylor Swift, i miei Bleachers. E Den Harrow”

Tutti lo conoscono come il produttore che - così lo ha definito la Bbc - “ha ridefinito la musica pop” degli ultimi vent’anni producendo i dischi di artisti del calibro di Taylor Swift, Lana Del Rey, Florence and the Machine, Lorde, St. Vincent, The 1975, collezionando tre Grammy Awards come “Produttore dell’anno” nelle ultime tre edizioni dei premi musicali più ambiti a livello mondiale. Ma Jack Antonoff, classe 1984 (è il secondo da destra nella foto in alto), partito dal New Jersey alla conquista del music biz, non è solamente il genietto che nella stanza dei bottoni del pop mondiale si diverte a schiacciare pulsanti, facendo decollare le carriere delle star. I Bleachers sono la sua valvola di sfogo. Anzi, forse è qualcosa in più. Perché il gruppo, nato dalle ceneri dei Fun (ricordate le hit “We are Young?” e “Some nights”?), nei quali militava lo stesso Antonoff, è decisamente molto di più che un side project: è una band vera, che il musicista statunitense condivide insieme a compagni di strada come Zem Audu (tastiere, sassofono), Mikey Freedom Hart (chitarre, tastiere, basso), Sean Hutchinson (percussioni), Mike Riddleberger (percussioni), Evan Smith (tastiere, sintetizzatori, sassofono). “Bleachers” è il quarto album del gruppo in dieci anni. Esce venerdì 8 marzo. Tra assoli di sassofoni, road songs, testi che parlano di sogni e speranze (Bruce Springsteen è da sempre uno dei miti di Antonoff), sarà una conferma per chi segue la band già da un po’ e una rivelazione per chi ha scoperto il gruppo grazie ai recenti successi da produttore di Antonoff, ormai considerato un guru del pop. “Per molti possiamo essere ancora una sorpresa. Poi se ascoltano il disco o vengono a un nostro concerto (il tour partirà il 19 marzo da Londra, ma al momento non prevede tappe in Italia, ndr) rimangono a bocca aperta perché gli si apre un mondo: siamo una band che suona meglio di qualsiasi altra band attualmente in circolazione”, dice, orgoglioso, dall’altra parte dello schermo, in una videochiamata Roma-New York.
Non ti dà un po’ fastidio il fatto che spesso ci si riferisca a te come se fossi solo il produttore delle popstar, dimenticando che in realtà - come testimonia questo disco - c’è molto di più?
“Quella fase l’ho superata. Sono cresciuto in band che suonavano e ho sempre fatto tutte e due le cose. Ho capito che a volte è difficile per le persone comprendere i diversi aspetti di ciò che uno fa. E con quel tipo di fastidio ci ho fatto pace quando ho capito che il mio lavoro di produttore, che mi ha dato una grande esposizione, ha permesso ai Bleachers di diventare una band molto importante”.
Ballate springsteeniane, un sound anthemico e vitale, storie personali che diventano inni pop, canzoni da ascoltare in autostrada: hai fatto ascoltare a Bruce un’anteprima del disco?
“Sì, più volte nel corso degli ultimi due anni. Abbiamo questa abitudine di darci appuntamento, infilarci in macchina, gironzolare e nel frattempo far ascoltare dallo stereo l’uno all’altro le rispettive nuove canzoni”.
E cosa ti ha detto?
“È sempre di grande supporto. Lo è stato sin dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti. Gli devo molto”.
“Modern girl” è forse la canzone più springsteeniana di tutte, con quell’assolo di sax. Cosa ti ha spinto a scegliere come primo singolo estratto dal disco un pezzo che sembra uscire da un disco rock Anni ’80?
“Il nostro ruolo di rockstar è anche questo: inserire in un singolo un suono come quello del sax che oggi, purtroppo, nel pop non si sente più. Ho pensato: fanculo. Ci apriremo anche i concerti. Spareremo a tutto volume dagli altoparlanti il sassofono di ‘Modern girl’, a rivendicare che i Bleachers sono diversi e meritano di essere ascoltati in quel modo. Quando faccio dischi, io penso solo a ciò che amo. Conta solo quello che succede nella mia testa e sono ossessionato dal trovare la versione più pura di quella cosa”.
Nell’album c’è qualche altro cameo nascosto, oltre a quello - dichiarato - di Lana Del Rey in “Alma mater”?
“Clairo canta qui e là i cori. E ci sono anche le voci di Florence Welch e di Annie Clark (è il vero nome di St. Vincent, ndr). Volevo che l’album suonasse tipo: ‘Ecco a voi il mio mondo’. In studio era sempre una festa tra amici: in un modo o nell’altro, quello spirito è entrato nel disco”.

Hai vinto il Grammy come produttore dell’anno per la terza volta consecutiva. Sei troppo bravo tu o c’è poca concorrenza in giro?
“Non sta a me dirlo. I miei colleghi sono tutti brillanti (ride)".
C’è un artista italiano con il quale ti piacerebbe collaborare?
“Recentemente ho ascoltato un sacco di vecchia musica italo disco. Merito di un documentario su questo tizio chiamato Den Harrow”.
Lo stai dicendo sul serio?
“Sì, perché? (Ride). Il documentario è di qualche anno fa, si intitola ‘Dons of Disco’. Mi ha appassionato la storia di questo ragazzo che non cantava davvero, ma faceva finta e la voce era in realtà di un altro. Sono andato ad ascoltarmi i suoi dischi e alla fine mi sono detto: fondamentalmente non m’importa nulla di chi canti. Il progetto è fighissimo e la musica è davvero interessante”.
Hai provato a cercarlo?
“È difficile (spoiler: ci abbiamo provato noi e qui trovate l'intervista a Den Harrow). So che in Italia la sua musica viene spesso ingiustamente snobbata e definita trash pop. Ma a volte anche il trash pop può essere interessante”.
E dei Maneskin, invece, cosa ne pensi?
“Non li ho mai ascoltati, a dire il vero. Sono così popolari in Italia?”.
Beh, non solo in Italia. Hanno conquistato anche le classifiche negli Usa.
“Okay. Non li ho ascoltati, ma li ascolterò, prometto”.
Qual è l’album che ti è venuto meglio, da produttore?
“Amo tutte le cose che ho fatto. Ma sul podio, in ordine sparso, metterei ‘Norman Fucking Rockwell!’ di Lana Del Rey, ‘Midnights’ di Taylor Swift e ‘Sling’ di Clairo”.