L’amore ai tempi di “Bridgerton”
Le fantasie romantiche degli sceneggiati in costume spesso raccontano più dell’epoca in cui sono scritte e girate che di quella in cui sono ambientate. Questo assunto è particolarmente vero per “Bridgerton”, serie di successo targata Netflix e caratterizzata da una scarsissima aderenza alla realtà storica dell’epoca in cui è ambientata.
“Bridgerton” non tenta mai di ricostruire uno spaccato fedele dell’epoca della Reggenza inglese. Usa piuttosto i fatti storici di quell’epoca per creare una fantasia romantica e un’utopia politica in un contesto ironico e frizzante, con cui deliziare il pubblico delle commedie sentimentali.
Dietro questo approccio c’è una delle figure più potenti e influenti dell’intera serialità moderna: la showrunner Shonda Rhimes, autrice di successi strepitosi quali “Grey’s Anatomy”, “Private Practise”, “Scandal” e “How to Get Away with Murder - Le regole del delitto perfetto”. Con la sua casa di produzione ShondaLand ha dimostrato di avere un tocco magico, infallibile: quasi tutto ciò che tocca si tramuta in oro, o quantomeno in ascolti da record. “Bridgerton” segna per ShondaLand un accordo lucrativo con Netflix e un livello di libertà creativa incondizionata per la sua creatrice.
La genesi del titolo è affascinante e ne spiega in parte le numerose contraddizioni. La storia e i personaggi infatti sono l’adattamento di una popolarissima serie di romanzi sentimentali a firma Julia Quinn. La serie televisiva però apporta un cambiamento cruciale rispetto al materiale di partenza.
Rimane la ricca famiglia aristocratica con i tanti figli e figlie da far debuttare in società e maritare. Rimane la misteriosa Lady Whistledown, una sorta di Gossip Girl ante litteram che usando il suo nom de plume spiffera i segreti scandalosi della nobiltà inglese. Parte dei nobili protagonisti però ha la pelle scura. Buona parte dell’aristocrazia inglese, regina Carlotta compresa, non è caucasica e appartiene a etnie differenti.
Shonda Rhimes, afroamericana, ha portato il problema del razzismo in molti suoi prodotti di successo. Tanto più è diventata famosa e potente, tanto più è riuscita a convincere produttori ed emittenti a mettere interpreti afroamericani in ruoli chiave, a raccontare storie relative alla vita della comunità nera negli Stati Uniti, senza perdere quel mix di colpi di scena, passioni e verve che ne hanno decretato il successo da sceneggiatrice.
“Bridgerton”, il gioiello della Corona di Shonda Rhimes
“Bridgerton” in questo senso è il gioiello della Corona: una serie in costume ambientata nella Londra della Reggenza in cui bellissimi interpreti in abiti sgargianti fanno tutto ciò che gli appassionati del genere si aspettano, sorvegliati a vista da una regina d’Inghilterra dalla pelle scura. Arrivata su Netflix poco prima dell’inizio della pandemia e del lockdown italiano e internazionale, “Bridgerton” si è rivelata la forma di escapismo più desiderata di quel particolare momento storico: leggera, brillante, arguta e molto ormonale.
L’esperimento o la rivoluzione alla base dell’ucronia di “Bridgerton” erano però come sospesi. Shonda Rhimes ha dato il via al progetto, ma ha poi lasciato la scrittura nelle mani dei colleghi Chris Van Dusen e Jess Brownell. I due hanno quindi realizzato il ritratto di questa Inghilterra alternativa e utopica in cui il razzismo è sparito di colpo, a partire dall’apparizione mai spiegata di una regina dalla pelle scura.
In queste ore arriva su Netflix il primo spin-off di “Bridgerton”, intitolato “La regina Carlotta: una storia di Bridgerton”. L’intento è duplice: trasformare la serie in un franchise e rispondere a una fondamentale domanda di fondo che gli spettatori e i lettori continuano a porsi: cosa ha cambiato la società inglese e come è arrivata al trono la Charlotte interpretata da Golda Rosheuvel?
Ambientato alcuni decenni prima dell’inizio di “Bridgerton”, “La regina Carlotta” è una mini-serie in 6 puntate. A occuparsi della scrittura stavolta c’è Shonda Rhimes, tornata dopo lungo tempo a metter mano come showrunner a un progetto. Il confronto diretto tra scrittura della serie originale e spin-off rende chiaro perché la sceneggiatrice e produttrice riceve ogni anno assegni milionari.
Lo svolgimento di “La regina Carlotta” ricalca formalmente quello di una stagione classica di “Bridgerton”: c’è la voce fuori campo di Julie Andrews/Lady Whistledown, ci sono i balli con i protagonisti che danzano su cover di canzoni pop celeberrime in versione musica da camera, nel cast figurano anche un pugno d’interpreti della serie originale.
“La regina Carlotta” si muove su due piani temporali: il presente di “Bridgerton” in cui un’anziana regina Carlotta svolge la funzione di sovrana reggente in solitudine, e il passato in cui la 17enne Carlotta viene catapultata dai possedimenti di famiglia a Hannover a Londra per sposare il re d’Inghilterra. Lui la incontra nel primo episodio, si presenta come Giorgio e la sposa pochi minuti dopo averla conosciuta.
La regina Carlotta e re Giorgio: la storia e la versione di “Bridgerton”
Molti sospetti del pubblico trovano qui conferma: Giorgio è re Giorgio III, il consorte della vera regina Sofia Carlotta, passato alla storia come “il re folle”. Corey Mylchreest interpreta il giovane Giorgio che lentamente discende in una spirale di follia, mentre la protagonista India Ria Amarteifio è una giovane regina straniera e isolata, che tenta di navigare a vista un matrimonio non facile.
“La regina Carlotta” riprende le ipotesi di alcuni storici secondo cui la regina a cui è ispirata la protagonista avesse lontani antenati africani e quindi una pelle lievemente più scura della media dei nobili europei dell’epoca. Re Giorgio III la sposò come ripiego, dopo che la madre espresse disapprovazione per il suo primo amore; una nobile considerata tanto carismatica e volitiva da insidiare l’influenza materna sul monarca.
Negli annali di storia Carlotta e George trovarono il modo se non d’innamorarsi, quanto meno di convivere con affetto e rispetto. Lei diede alla luce 15 eredi al trono, lui fu un re popolarissimo, nonostante la sua follia divenuta di dominio pubblico e si fosse resa necessaria la reggenza del figlio in sua vece.
“La regina Carlotta” ci racconta tutto questo, prendendosi tante libertà. In primis quella del Grande Esperimento. Vedendo il colore della pelle della sposa, la regina madre Augusta prende la decisione di elevare al rango aristocratico le famiglie non caucasiche della società inglese con radici e natali nobili, dando il via a una lenta parificazione tra nobili bianchi e non, di cui Carlotta è il volto e la tutrice.
Sia nello spiegare il Grande Esperimento sia nel rappresentare una ragazza cresciuta in Germania che si ritrova in un paese straniero per sposare uno sconosciuto, “La regina Carlotta” si muove in netta salita. A fronte di due episodi finali riuscitissimi, che hanno guadagnato al titolo recensioni strepitose, la serie brancola tra trascuratezze e scivoloni nei primi quattro. D’altronde buona parte del limitato minutaggio è dedicato al risvolto sentimentale della vicenda, con le schermaglie amorose di Carlotta e Giorgio.
Solo nelle sue battute finali “La regina Carlotta” prende il ritmo giusto e smette di essere un semplice equivalente televisivo dei romanzi sentimentali. Senza darlo troppo a vedere, “Bridgerton” ha svolto soprattutto questa funzione, nella speranza di attrarre il pubblico più variegato degli adattamenti austeniani e dei film in costume. La centralità degli struggimenti amorosi si accompagna a un impressionante numero di scene tra le lenzuola, perché Julia Quinn è una di quelle scrittrici che alle sue lettrici dà una bella quota di passionalità ed erotismo.
In avvio di stagione lo spin-off di “Bridgerton” ricalca il suo predecessore, seguendo l’arco narrativo della prima stagione ma a tappe forzate, avendo meno episodi a disposizione. La serie riesce a far sposare Carlotta già nel primo episodio, senza dirci nulla della sua vita precedente. Coniugata a uno sconosciuto, Carlotta si dimostra nostalgica di casa o sconfortata per la sua nuova situazione solo nel quarto episodio e solo dopo aver infilato tutta una serie di scene discutibili. “La regina Carlotta” si apre con la minaccia reiterata di uccidersi muovendosi un po’ troppo in carrozza e finendo così pugnalata dalle stecche del corsetto… come già detto, l’accuratezza storica è l’ultimo degli interessi della serie, ben più affascinata dall’immaginario popolare spesso falsato di quell’epoca.
“La regina Carlotta” è una serie dal passo affrettato, creata per rivelare un importante mistero della serie di cui è costola ma rivelandosi per quel che è: una toppa che copre un buco di trama che nessuno aveva pensato di dover spiegare, trasformata in un’occasione per alzare gli ascolti. Il sospetto è che i soldi a disposizione siano stati meno, pur avendo come obiettivo quello di muoversi sullo stesso livello della serie madre. Da qui la furbissima puntata in cui rivediamo quanto successo nelle precedenti dal punto di vista di Re Giorgio, così da risparmiare, nei fatti, il costo di un intero episodio.
Eppure nella sua seconda metà, proprio quando il finale si avvicina, lo spin-off diventa improvvisamente la serie dal taglio politico e femminista che speravamo di vedere. Quella in cui le protagoniste giovani e anziane, almeno a parole, tentano di buttare il cuore oltre l’ostacolo e definire la propria identità oltre il matrimonio e il legame con gli uomini, facendo qualche timida prova di solidarietà e amicizia femminile.
Cosa ci dice “La regina Carlotta” dell’amore e del sesso
Quello che trovo ugualmente sinistro e affascinante è cosa ci dice dell’amore e del sesso "Bridgerton”, ora che Shonda Rhimes in persona è tornata a metterci mano. La serie infatti è stata bersaglio di parecchie critiche per come, sotto il suo approccio femminista e progressista, reiterasse modelli non privi di problematicità.
“La regina Carlotta” si muove nello stesso solco, facendo squillare parecchi campanelli d’allarme, salvo poi salvarsi in corner e regalarci su finale scene che strappano applausi, interrompendosi proprio quando sembrava essere riuscita a orientare la sua bussola morale.
In alcune scene ricorrenti questa evoluzione è particolarmente evidente. Si prendano per esempio in esame gli innumerevoli intercorsi amorosi di “Bridgerton”, a partire da una premessa ineludibile. Viviamo infatti in un’epoca in cui il sesso è sempre meno presente nei prodotti audiovisivi, così come le manifestazioni d’affetto o i momenti d’intimità. A parte pochi, selezionati prodotti, ci viene costantemente raccontata un’emotività adolescenziale, che si trasforma in una famiglia stabile con figli, glissando sui passaggi intermedi.
Netflix in questo senso si accredita in apparenza come la nuova HBO: libera dal pudore, capace di proporre trame trasgressive, scene esplicite e nudi. “Bridgerton” dovrebbe fare scuola: sono innumerevoli le scene intime in cui i personaggi hanno rapporti completi d’orgasmo, si abbandonano a intercorsi romantici o rabbiosi interscambi sessuali pre e post litigata in cui la passione è tanta e tale che si getta a terra l’argenteria e si copula sul tavolo da pranzo.
Rispetto a sequenze più libertine della prima stagione, con il passare del tempo amplessi e orgasmi in “Bridgerton” sono divenuti sempre più coreografati non tanto per simulare passione, quanto per mantenere al minimo la nudità, che è andata a decrescere di episodio in episodio.
Vera figlia dell’era Gen Z e delle preferenze espresse dal pubblico più giovane, “Bridgerton” mostra più sederi che seni ed è esente da full frontal. L’intimità non è una questione di centimetri di pelle esposti, è vero. Tuttavia quando la cinepresa si nasconde dietro una colonna oscurando metà dello schermo per vedere e non vedere mentre gli interpreti di Carlotta e Giorgio muovono gambe e braccia in perfetta armonia a coprire uno le pudenda dell’altro, si prova un senso d’artificialità e di contegno. Nello spin-off questo ritorno a un approccio più pudico e a scene dal taglio più romantico è definitivamente stabilizzato, intuendo che una fetta di pubblico giovane dimostra quasi un’avversione per la passionalità, preferendole gesti e scene di tenerezza.
È difficile dare un giudizio sull’affettività raccontata in “La regina Carlotta”, perché la serie fa un’inversione a U così netta nella seconda parte da lasciare interdetti: a quale versione dobbiamo dare ascolto? La cornice relazionale in cui si consuma lo spin-off è contraddittoria e lancia segnali contrastanti allo spettatore.
I protagonisti reali sono una coppia di estranei, forzati dalle circostanze a consumare il matrimonio per poter mettere al mondo un erede. Tra i due scoppia quasi immediatamente l’amore reciproco, incrollabile. Questa intesa è resa più credibile dal fatto che Carlotta non abbia un’identità propria relativa chi sia stata nei primi 17 anni di vita a Hannover. Il suo ruolo è quello di innamorata, moglie e madre.
Rhimes le dà potere politico e notevoli capacità relazionali, la caratterizza con uno spirito indipendente e più femminista di quanto ci aspetteremmo nell’epoca. Eppure la fa tentennare solo nelle fasi avanzate della storia, spingendola subito dopo a prendere su di sé il peso del ruolo di regina e protettrice del marito impostole dalla società e dal fratello. Carlotta si ritrova così con la pressione di dover mettere al mondo un erede e la crescente consapevolezza che il suo re e marito sia così fragile da rischiare di perdere l’equilibrio mentale a ogni apparizione pubblica.
“La regina Carlotta” sa essere toccante per come descrive l’amore di una persona che si ritrova al fianco di un’altra gravata dal peso della malattia mentale. È un versante sentimentale che c’è un grande bisogno di raccontare, ed è lodevole come Rhimes lo metta al centro dell’intreccio sentimentale della stagione. Carlotta però, al pari di certe figure mariane, è impeccabile, capace sempre di dire la cosa giusta al momento giusto, mai prostrata dalla difficoltà di essere in un rapporto di questo tipo, senza peraltro le conoscenze mediche e psichiatriche della nostra epoca. Rischia di essere una rappresentazione che mette pressione a chi vive queste situazioni, ma conosce momenti di debolezza e sconforto.
Quando la malattia mentale del re si rivela in tutta la sua drammaticità, lei è già calata nel ruolo dell’eroina, della crocerossina, della moglie devota. Inoltre la comunità di lord e lady non caucasici le fa pressione affinché metta al mondo un erede e rafforzi il loro status aristocratico appena concesso. Pressione che lei riesce sempre a sostenere, senza tentennamenti, nemmeno nel privato delle sue stanze.
L’innamoramento eterno domina in TV
Una ragazzina di origini tedesche, sola in uno stato straniero, sposata a un estraneo con gravi problemi mentali diventa una giovane donna tenace e giudiziosa in una relazione romantica, che affronta enormi sacrifici e gode d’incredibili privilegi.
Nella realtà storica un’aristocratica nei panni di Carlotta sarebbe stata educata a svolgere questo ruolo, a spendersi per la tenuta del trono e della famiglia reale. Con un ribaltamento ardito Rhimes trasforma il dovere della corona in una scelta rivoluzionaria d’amore di Carlotta, che vuole proteggere il suo re. Tuttavia rimane il fatto che si tratta di un sacrificio immane, romanticizzato.
Siamo pur sempre in “Bridgerton”, un mondo d’utopia in cui ai gran balli di stagione le coppie volteggiano sulle note di SZA, Whitney Houston e Beyoncé. Una visione in cui la società inglese aristocratica è multietnica e inclusiva, senza frizione alcuna per due stagioni.
Quando è Rhimes a metterci le mani, ecco apparire finalmente l’urgenza delle protagoniste non caucasiche di consolidare la propria posizione e i diritti (nobiliari) appena ricevuti, lottando per costruire un futuro migliore per le proprie famiglie. Persino tra le fila delle antagoniste troviamo madri guerriere e astute strateghe a cui lo show rende omaggio, come per esempio la madre di George, che ha protetto il re prima di Carlotta.
Uno dei pochi aspetti su cui lo show però decide di essere storicamente verosimile è l’ossessione matrimoniale delle sue protagoniste, la loro continua propensione per il sacrificio in nome della famiglia. “La regina Carlotta” però pone le basi per fare qualcosa che su Netflix succede raramente: mettere da parte l’eterno innamoramento per parlare d’amore maturo, che viene costruito ogni giorno, tra compromessi e sacrifici.
Carlotta è la potentissima regina solitaria che non ha il marito al fianco, ma rimane a lui devotissima. La mancanza di un erede al trono la porta a spronare la pletora di figli adulti a darsi da fare. Parole particolarmente dure vengono rivolge alle figlie, a cui rimprovera ventri ormai secchi, zitellaggio impenitente e, all’unica sposata, l’incapacità di darle un’erede. Lo fa con parole dure e crudeli.
Inizialmente questo approccio lascia spiazzati, ma Rhimes fa qualcosa che i suoi predecessori non hanno nemmeno mai contemplato: racconta una donna che è messa a disagio dalle manifestazioni emozionali, i cui figli hanno sofferto una maternità caratterizzata dalla mancanza di dimostrazioni d’affetto e contatto fisico. A suo mondo, Shonda Rhimes ci suggerisce quanto Carlotta ami i suoi figli, ma questo non significa che non li faccia soffrire e che non li abbia anche trascurati, eleggendo il consorte a sua assoluta priorità.
D’altronde in “Bridgerton” l’attrazione è l’anticamera dell’innamoramento e questo conduce inevitabilmente a un impegno serio, spesso per la vita. Ci sono le amanti, ci sono le prostitute e le commoners (che come tutti i non nobili sono così relegate ai margini da dubitare che esistano veramente), ma uomini e donne sembrano impermeabili a cambi d’opinione, raffreddamenti di passione, relazioni ricreative. Si vedono, s’innamorano e, pur litigando e fraintendendosi, si amano per sempre.
In questo senso è esemplare il personaggio di Adjoa Andoh, Lady Agatha Danbury. La madre del bel duca protagonista della prima stagione è un donna vedova da decenni, che ha “coltivato il suo giardino” di relazioni amorose, scegliendo fieramente di non risposarsi, per “respirare finalmente la propria aria”. “La regina Carlotta” ci racconta il suo matrimonio complesso con un uomo più vecchio e che non la conosce davvero, verso cui lei sviluppa un sentimento ambiguo d’insofferenza e al contempo d’affezione.
Adjoa Andoh è straordinaria nell’incarnare la donna fiera e indipendente che Rhimes scrive per lei, eppure, a conti fatti, la sua indipendenza è più allusa che effettiva. Dopo la vedovanza ha una relazione con un uomo sposato che, pur travagliata, si rivela ancora una volta una “cosa seria”, decisamente non ricreativa.
Sono le nobildonne vedove a regalare i momenti più riusciti della stagione e a spingere lo spin-off in territori raramente esplorati dal genere sentimentale. Tra i passaggi più riusciti di “La regina Carlotta” ci sono quelli che vedono la reggente adulta e due nobildonne sue amiche confrontarsi su temi amorosi e sentimentali. Carlotta è maritata ma nei fatti è come se fosse già vedova, come sono invece le altre due. Una è stata amata dal marito che ha molto amato, l’altra ha supportato e sopportato un consorte più anziano, frettoloso a letto e misogino nella quotidianità. I momenti dedicati alle tre sono tanto incisivi, tanto sfaccettati da chiedersi perché non siano loro al centro assoluto della scena.
“La regina Carlotta” scrive pagine molto commoventi sull’amore di chi resta, sul ricordo e sul dolore che rimane dopo che l’amato se n’è andato o non è più in sé. In una serie tanto utopica e tanto contemporanea però viene da chiedersi perché si dedichi così poco spazio ad altri tipi d’amore e d’affetto, perché sia così difficile scavalcare il recinto matrimoniale, specie per i personaggi femminili. Non è che la storia dell’epoca non fornisca esempi di attività ricreative sorprendenti e trasgressive e coppie anticonvenzionali e ribelli, anche agli occhi contemporanei.
“Bridgerton” tutto però si fa forte del nostro pregiudizio verso le epoche passate, che ci porta spesso a credere che chi ci ha preceduto fosse meno acuto, meno progressista, meno visionario e meno ribelle di quanto possiamo essere noi. L’aspetto più snervante è come si accontenti di un Grande Esperimento inclusivo a livello etnico, tra l’altro più fondato su omissioni ed elisioni che su sviluppi coerenti e credibili.
Un’area in cui si muove bene ma tardivamente è lo smantellamento dell’approccio più convenzionale e tradizionale possibile ai sentimenti, all’amore, alla sensibilità. Ci sarebbe gran bisogno di una serie che sfidi i limiti di quello che consideriamo giusto o normale, imparando ad accettare non solo orientamenti sessuali diversi, ma anche diversi modi d’intendere i rapporti amorosi, amicali e intimi. Usare il passato come campo neutro in cui provare questo Grande Esperimento Sentimentale sarebbe l’ideale per far sognare e riflettere gli spettatori in tutta sicurezza, senza farli sentire chiamati in causa o giudicati in prima persona.
In teoria in campo seriale c’è molto interesse per la dimensione intima e sentimentale di coppia al di fuori di una certa performatività romantica. La trasgressione di facciata è allettante - vedi prodotti come “Sex Education” o “Bonding” - la presenza di interpreti piacenti la cui chimica aumenta puntata dopo puntata ci tiene inchiodati al divano fino all’alba. Finito l’innamoramento ci sono solo due opzioni: o un tira e molla infinito (ci amiamo, stiamo insieme, mi lasci, ti lascio, ci ritroviamo) o una dimensione coniugale da eterna bonaccia, salvo occasionale divorzio. Il target prettamente adolescenziale dei più recenti prodotti di punta di casa Netflix rende più semplice ovviare al problema.
“La regina Carlotta” ha per le mani tre personaggi femminili potenti - Carlotta, Agatha e Violet - impegnati a costruire la loro vita dopo il capitolo matrimoniale. Fa pronunciare alle tre discorsi potenti, fa esplorare loro idee seducenti. Alla fine, nella sostanza, rimangono tre lady che si divertono a combinare matrimoni nell’alta società, impegnate a proteggere gli interessi della propria famiglia.
La crisi delle relazioni d’oggi - a cui il perimetro matrimoniale, la monogamia e il “vissero per sempre felici e contenti” vanno stretti - non trova spazio sul piccolo schermo, se non in rarissimi casi. Nemmeno nella dimensione escapista dei prodotti sentimentali.
La solitudine che attanaglia tanti, fuori e dentro le relazioni, è ancor meno presente, se non come spunto per la costruzione di una “famiglia alternativa”. Carlotta è legata a doppio filo a un re per lo più assente da cui non vuole emanciparsi. Il finale della serie celebra il loro amore più forte delle difficoltà, ma rimane il fatto che Carlotta da reggente è preda della solitudine ancor più di quando lo sposò 17enne.
Similmente gli spettatori sono intrappolanti in una rappresentazione sentimentale spesso del tutto inadatta al presente in cui vivono, per giunta presentata in una confezione quasi nostalgica di certi ruoli familiari rigidi. Non bastano i gioielli, le parrucche e le dimore sfarzose a ingentilire lo strisciante passatismo di questa visione dell’amore oggi, ai tempi di “Bridgerton”.
Dove vedere “La regina Carlotta - Una storia di Bridgerton”? Netflix
Quanti episodi ha “La regina Carlotta - Una storia di Bridgerton”? 1 stagione da 6 episodi
Quando è uscita “La regina Carlotta - Una storia di Bridgerton”? 2023
Foto: Netflix