Lazza: “Voglio fare come la Pausini e sfondare all’estero”

Un tank che, con la forza dei suoi cingolati, attraversa paludi e deserti, senza mai fermarsi, fino ad arrivare a un prato paradisiaco e bucolico, è la metafora del percorso di Lazza in questi ultimi anni. Il rapper milanese, oltre ad avere i numeri e le classifiche dalla sua parte, parametri che lo certificano come un "fenomeno" della musica italiana (“Sirio” è l’album che per maggior tempo è rimasto primo in graduatoria nella storia del nostro Paese), ha anche la concretezza di uno show di alto livello: il tour nei palazzetti partito da Roma (qui la nostra recensione) e giunto alla prima delle tre tappe milanesi al Forum di Assago, è uno degli spettacoli urban più belli degli ultimi anni, soprattutto dal punto di vista corale e tecnico. Abbiamo incontrato Lazza per parlare di questo momento della sua carriera e soprattutto del futuro.
In questo tour hai un quartetto d’archi sul palco come Kanye West. Da dove arriva questa scelta?
“Me lo ha suggerito lui (ride, ndr)”.
Quindi avete un feat insieme?
“Magari. Ho un’amica che sta lavorando a una collaborazione con lui a livello di brand, ma musicalmente ancora niente. Secondo me ci arrivo prima o poi (sorride, ndr)”.
Prima non vorresti fare una canzone con Post Malone con cui state diventando amici?
“Sarebbe davvero bello”.
La prima data nei palazzetti è stata a Roma, ora Milano. Farai tre Forum in totale e ci saranno altri concerti. Le differenze fra le varie città?
“Ovviamente Milano per me è casa. E ho anche la possibilità di portare diversi ospiti. A livello di show, però, differenze non ce ne sono. Io cerco di dare tutto in ogni città. Storicamente per un artista di Milano, fare concerti a Roma e a Napoli non è mai stato semplice. E invece il palazzetto a Roma era davvero strapieno alla prima del tour”.
Sul palco, oltre che dal quartetto, sei accompagnato anche da una band e da un pianista. In alcuni frangenti anche tu suoni il piano. Ci sono tutte le tue anime?
“Sì. Già diversi rapper italiani si sono fatti accompagnare da una band sul palco, ma io ho voluto fare anche altro e allargare il campo. Quando un fan prende un biglietto per una data in un palazzetto è perché si aspetta qualche cosa di epico. Io ho lavorato su questo aspetto: la mia scuola è sempre stata quella del non fare quello che hanno già fatto gli altri. Da qui la scelta di coinvolgere il quartetto e il pianista, che tra l’altro è stato scoperto per caso su TikTok dalla mia ragazza. Siamo rimasti colpiti dalla sua versione di ‘Piove’, si chiama Emiliano Blangero. Due elementi del quartetto d’archi lavorano con Edoardo Bennato, gli altri vengono scelti a rotazione”.
È cambiato qualche cosa dopo la partecipazione al Festival di Sanremo con “Cenere”?
“A livello di impatto con il pubblico, sì. Quando mi ferma una sciura per strada, che potrebbe essere mia nonna, e mi fa i complimenti per me è qualche cosa di nuovo. E tra l’altro io dopo Sanremo sono uscito con ‘Zonda’, che è un pezzo ‘anti-Sanremo’. Eppure è piaciuto, ha dimostrato che non sono solo quello di ‘Cenere’. Anche Simona Ventura mi ha scritto per farmi i complimenti”.
Perché “Cenere” è così potente come brano?
“Perché tocca tutte le generazioni, dal bambino all’adulto. È un linguaggio che arriva a tutti”.
C’è qualche cosa che ti spaventa di questo successo?
“No. Mi serve per imparare a relazionarmi con tante e diverse persone, mi fa bene”.
Il livello dopo?
“Studiare inglese e spagnolo e fare come la Pausini. Voglio andare all’estero. Mi piacerebbe fare quello che faccio qui ma all’estero, magari riempiendo un paio di arene. Non so se cantando in inglese o spagnolo in realtà, ma l’importante è andare fuori. In Italia ho ancora tanto da dare, ma voglio piantare qualche seme anche a livello internazionale. Sono felice per la data a Londra il prossimo 11 maggio, per esempio: è un inizio, in un posto da 1500 persone”.
In “Sirio” ci sono collaborazioni con Tory Lanez e French Montana. Hai già iniziato a guardare fuori dai confini nazionali.
“Sì, però il feat americano è più uno sfizio. In realtà fa poco. Capita che artisti americani siano in un disco italiano, ma che poi non lo spingano. Nel mio caso le collaborazioni sono state sentite, ho collaborato con due americani con cui mi sono scritto e che mi rispettano. Oggi, forse, vale di più un feat europeo per un italiano, perché i Paesi europei sono più vicini ed è tutto più facile. La prova? Il pezzo che feci con Gazo e Tony Effe (“Ke Lo Ke”, ndr) ha fatto Platino, quello che ho realizzato con French Montana ha fatto Oro”.
Sfera Ebbasta e Rondodasosa, da tempo, stanno portando avanti legami con l’estero. Cosa manca ancora all’Italia?
“Hanno lavorato bene, sono orgoglioso e spero anche io di offrire presto il mio contributo per portare l’Italia nel mondo. Loro sono arrivati a Drake, a casa del capo. Sfera è un papà, in Rondo ho creduto sin da subito e sulla forza Central Cee ci ha visto lunghissimo. Sarebbe bello in un futuro vedere un italiano in un disco di un rapper americano, credo che quella sarebbe la svolta”.
Il futuro dopo “Sirio”?
“Sinceramente un po’ mi spaventa. Non so se riuscirò ad andare a pari, bissando questo successo. Purtroppo le persone riducono tutto ai numeri e se non dovessi farcela sicuramente lo rimarcherebbero”.
Cosa farai dopo il tour?
“Mi trasferirò un mesetto in America, non ci sono mai stato. Alla fine dico ‘vado in vacanza’, ma poi lavoro sempre in qualche modo. E ho anche l'idea di andare a trovare qualche produttore, mi piacerebbe beccare anche qualcuno di storico come Scott Storch. La verità è che la routine di Milano mi sta stancando: sempre gli stessi giri, sempre la stessa gente. E poi non posso più uscire di casa che mi piazzano un telefono in bocca. Andare all’estero per me è una boccata d’ossigeno”.
La fama porta con sé anche una responsabilità sociale nei confronti di chi è meno fortunato?
“Non mi piace parlare di queste cose. I gesti positivi che faccio, li faccio e basta. Non c’è bisogno di fare foto o video, anche se sembra che non esistano quelle azioni se non le riprendi con un cellulare. Preferisco la presenza fisica, l’esserci e basta. Lo zio di mio padre, per esempio, ha un centro di assistenza per ragazzi down. Ho passato un po’ di tempo con loro la scorsa settimana. L’ho fatto e basta, non c’è bisogno di spettacolarizzare”.
Faresti un concerto, come Bob Dylan, in cui è impossibile l’utilizzo dei cellulari per riprendere e fare foto?
“Sarei super fan di un’iniziativa così. Al Berghain (famoso club di musica elettronica, ndr) di Berlino mettono un bollino adesivo sull’obiettivo del telefono. Uno lavora mesi per un’entrata come si deve sul palco e poi vedi tutti con il telefono in mano. Ma perché non se la godono e basta?”.