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Il concerto di Daniele Silvestri è un happening che dura tre ore

A tre anni dai palasport, il cantautore porta nei teatri una produzione particolare: la recensione.
Il concerto di Daniele Silvestri è un happening che dura tre ore

Il concerto è iniziato già da una decina di minuti, quando un paio di ritardatari – pensando di passare inosservati nel buio della platea – si affannano a raggiungere i rispettivi posti, chiedendo permesso ai vicini. Daniele Silvestri, sornione, al centro del palco sorride: “Sì, sì, questo è proprio il tipo di spettacolo in cui si può tranquillamente arrivare tardi: poi vi spiego perché”. Il perché sarà chiaro a tutti gli spettatori alla fine del concerto, quando uscendo dal teatro butteranno un occhio all’orologio e realizzeranno di essere stati inchiodati alla propria poltrona per oltre tre ore. A tre anni dall’ultimo tour ufficiale, quello che lo vide esibirsi nei palasport in supporto all’album “La terra sotto i piedi”, il cantautore romano torna nei teatri con una produzione che va oltre la formula del concerto classico, tra happening, jam session e spettacolo teatrale tout court. Con una trama ben precisa: al centro c’è lui alle prese con le lavorazioni di un ipotetico nuovo disco, che scrive, arrangia, produce e registra – si fa per dire – in diretta insieme alla sua band nello studio immaginario allestito sul palco, tra strumenti musicali, qualche lampada qui e là, divani e tappeti.

Per tornare ufficialmente in tour e promuovere un album, secondo le logiche canoniche della discografia, avrebbe dovuto aspettare la primavera dell’anno prossimo, quando spedirà nei negozi il nuovo disco. Invece per la prima volta in quasi trent’anni di carriera – li festeggerà tra due anni – Silvestri ha deciso di raccontare sul palco il work in progress delle canzoni che faranno eventualmente parte dell’album. Non solo il singolo “TikTak” (il social network dei giovanissimi non c’entra: il titolo ha a che fare con “il cazzo di click nella testa” dei musicisti, quello del metronomo), che ha fatto uscire alla vigilia del debutto del tour teatrale, partito da Assisi il 29 ottobre scorso all’insegna dei sold out e delle date multiple (venerdì e ieri ha fatto tappa nella “sua” Roma, all’Auditorium Conciliazione), ma anche quelle nate mettendo in versi le storie che ha chiesto ai fan di mandargli sui social. Non perché fosse a corto di ispirazione – tra i cantautori della sua generazione a 54 anni continua ad essere uno dei più prolifici – ma perché in questa fase della sua carriera voleva fare qualcosa di diverso, di non ordinario: “’Storia’ è la parola che mi sentirete ripetere più spesso, sul palco. Me ne cibo, di storie. Non solo per il mestiere che faccio, che vive di storie: è che io le storie me le vado anche a cercare, parlando e guardandomi intorno”, dice.

I titoli dei brani (non più) inediti sono provvisori e anche i testi stessi sono abbozzati o quasi. Come quello di “Scrupoli”, che racconta una separazione dal punto di vista di una donna, o quello de “Il girasole”, che parla invece di una bambina che si prende cura di una pianta sul terrazzo di casa, nascondendola alla madre per non farla estirpare. La suona due volte, cercando la metrica giusta. “Vabbè, andiamo sul sicuro”, ironizza subito dopo, pescando dal passato remoto. Con “L’uomo del megafono” sposta idealmente le lancette del tempo indietro di ventisette anni e torna a quando nel 1995 si presentò in gara al Festival di Sanremo, tra le “nuove proposte”: “Questa è stata la prima canzone che ho cantato davanti a tanta gente – ricorda – non tanto quella che vedevo in platea, ma quella che era dietro lo schermo della tv a casa”. Fulminacci non era neppure nato, all’epoca: di anni il cantautore romano, che da promessa della scena con i suoi dischi ha confermato di poter ambire a raccogliere l’eredità di chi è stato grande prima di lui, ne ha 25. Eppure i dischi di Silvestri ha dimostrato di averli studiati a fondo, rubando con le orecchie dallo stile del collega, come lui stesso ha ammesso. Non avevano mai condiviso il palco. Quando dalle spalle di Silvestri spunta la sagoma di Fulminacci, in un mash-up tra “Le cose in comune” e “Resistenza”, una hit del primo e uno dei pezzi più conosciuti del secondo, sembra di vedere un padre e il proprio figlio: “Con tutte le cose che abbiamo in comune l’unione tra di noi non sarebbe perfetta?”, cantano, scambiandosi sguardi di complicità. E chissà che il sodalizio non si limiti al duetto romano e che i due possano ritrovarsi a cantare insieme nel futuro prossimo su un palco decisamente più prestigioso.

“L’uomo intero”, “Mi persi”, “Acrobati”, “La cosa giusta”, “Concime”. E poi ancora “La mia casa”, “A dispetto dei pronostici”, “La classifica”, “Che bella faccia”, “Monolocale”, “Strade di Francia”, “Desaparecido” e “L’autostrada”. Silvestri non punta sulle hit del suo repertorio, che comunque non mancano in scaletta, anche se concentrate quasi tutte alla fine, ma va a ripescare e a riscoprire pezzi meno noti, alcuni dei quali mai diventati singoli. Non sembra interessargli seguire la prassi dell’autocelebrazione: si tra fuori dai concerti-greatest hits, proponendo qualcosa di alternativo. Portando gli spettatori al centro di una speciale sala prove, dove scherza, suona e si scambia idee e pareri con la band di fedelissimi composta da Daniele Fiaschi alle chitarre, Duilio Galioto alle tastiere, Piero Monterisi alla batteria, Gabriele Lazzarotti al basso, Gianluca Misiti alle tastiere e ai sintetizzatori, Marco Santoro al fagotto e alla tromba, Jose Ramon Carabllo Armas ai fiati. Ad un certo punto si lascia sfuggire pure una cover di “Cara” di Lucio Dalla: ma è su pezzi come “Il mio nemico”, “A bocca chiusa” e “Salirò” che il pubblico si scatena. Fino al tradizionale finale con “Testardo” (“Però, se ancora un po’ mi piaci, la colpa è dei tuoi baci, che m’hanno preso l’anima… de li mortacc…”): non era mai stato così liberatorio.

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