La liturgia live di Nick Cave contro la forza della natura

Se vi dicessi di pensare a un artista famoso per la sua intensità dal vivo, a chi pensereste e perché proprio a Nick Cave?
E se vi chiedessi di collocarlo in una venue di grande impatto, una in grado di lasciare un segno altrettanto indelebile, quanti secondi passerebbero prima di pensare all’Arena di Verona? Ecco, il 4 luglio 2022 gli astri si allineano e permettono che questo incontro scolpito nella pietra giunga a compimento.
Una serata ad alto tasso di drammaticità
Nick Cave all’Arena di Verona. Un tasso di drammaticità talmente elevato da interrompere il caldo apocalittico di questa estate anomala per scatenare un nubifragio. Raffiche di vento e bombe d’acqua si abbattono su Verona e sulle migliaia di persone accorse per ritrovare quel loro strano sacerdote. I piani cambiano, com’è normale che sia quando ci si ritrova in un contesto eccezionale come questo, e i cancelli dell’anfiteatro romano aprono con notevole ritardo. Le prime file della platea gold non sono più agibili e qualcuno si ritrova dirottato sulle gradinate laterali. Le reazioni sembrano comunque molto composte, armonizzate da una sorta di fede. Da un lato perché è meglio questo che un concerto annullato. Dall’altro, diciamocelo: c’è una grande fiducia nei mezzi di quell’uomo in abito elegante, che sarà il primo a voler annullare le distanze e rispettare il reciproco volere di incontrarsi.
Bisogna aspettare le 22 inoltrate per poter vedere King Ink e i suoi Bad Seeds salire sul palco. Quando lo fanno, si ritrovano davanti ad un contesto per certi versi spiazzante. Una moltitudine di impermeabili, ombrelli e ripari di fortuna crea un manto variopinto che ricopre l’Arena. Un po’ paradossale, se paragonato ai toni oscuri e monocromatici dell’artista. Quando Nick comincia la sua liturgia tutti quei colori vengono infatti catturati dalle sue movenze sinistre e ricoperti di nero. Non con delicatezza, non dal fine pennello di un pittore, bensì da un tatuatore folle che attinge da pozzi d’inchiostro.
La buca
Il mondo di Nick Cave si divide in una componente astratta, fatta di arte, concetto ed espressione, e una componente fisica, legata allo spazio, alla carne e alle ossa di chi lo circonda e di cui deve necessariamente sentire il calore. Suscita un sorriso vederlo in difficoltà di fronte alla grande distanza che separa il palco dalle prime file della platea: «Vorrei venire più vicino a voi, ma c’è un maledetto buco che ci separa». Gli sventurati sulle gradinate laterali la chiamano invece “La Buca”, in modo più solenne. Agognata, viene invocata a gran voce, quasi in segno di sfida, e si tramuta nella nemesi del concerto, affrontata a viso aperto da Nick Cave sulle struggenti note di “From Her to Eternity”.
Potrebbe essere uno dei primi artisti a prendersi l’Arena di Verona in un senso letterale, quasi carnale. Non ci sta, vuole il suo bagno di folla, perciò sfrutta ogni passaggio per piegare lo spazio al suo volere. All’ordine e alla sacralità di un posto del genere, forse, è necessario contrapporre una sana dose di caos e imprevedibilità. Eccolo quindi scendere dalla passerella laterale, per poi risalire le gradinate in una danza ancestrale che culmina in un abbraccio collettivo. Ma è solo la prima di tante battaglie vinte contro La Buca, che - parola di Nick - si popola di fantasmi, quelli che, in un modo o nell’altro, quotidianamente orbitano intorno a ognuno di noi. Proprio a quei fantasmi dedica alcuni momenti, in un misto di ilarità e tristezza che ben si addice ad una serata così ambigua e complicata.
“O Children” arriva suadente come un’ombra, triste e malinconica, ma si manifesta poi con l’irruenza di un masso trita-ossa. Purtroppo è inevitabile pensare a due “children” in particolare: Arthur e Jethro, i figli che Nick Cave ha perso in questi ultimi anni. Un lutto al quale l’artista australiano non sembra arrendersi, ancorato al suo porto sicuro di emozioni e visceralità. Ringraziamo, di averlo visto superare il dolore più ottenebrante e salire sul palco per noi, ma soprattutto per se stesso. Il messaggio di speranza veicolato dal brano, nascosto sotto la cenere della disillusione, trasla così dai bambini agli adulti, generando un senso di sollievo collettivo difficile da spiegare.
Con “Jubillee Street” è già ora di tornare a scombinare i piani del cielo e balzare ancora una volta oltre La Buca. Metaforicamente, anche se per un attimo King Ink sembra pensarci. A questo punto quasi non stupirebbe se riuscisse a prendere il volo, vero? Ma a volare sono i microfoni, gettati via da Nick come fossero mozziconi di sigaretta consumati da un canto convulso, mentre le sue gambe calciano l’aria e le sue mani sembrano catturare l’effimero, convertendolo in così tanta energia cinetica da far alzare ogni persona all’Arena. Qualcuno sale persino in piedi sulla sedia, qualcun altro serpeggia tra le file nella speranza di sfiorare il proprio eroe. Mentre l’urlo “look at me now” riecheggia, rimbalzando sulle antiche pietre dell’anfiteatro, i Bad Seeds mostrano tutta la loro magia. Pur non riuscendo a seguire con lo sguardo il frontman, impegnato nell’ennesima battaglia, musicalmente non lo perdono neanche per un secondo. Lo accompagnano e crescono dentro di lui, come il seme malvagio di un simbionte che però non si limita a nutrirsi del proprio ospitante. Ne nasce piuttosto un reciproco vantaggio, una co-elevazione che è la definizione più edificante di “musica dal vivo”.
Gli eroi della serata
«La prossima canzone è bellissima e la dedico agli eroi di questa serata», dice con orgoglio Nick, rivolgendosi alla crew che ha reso possibile un concerto che sembrava impossibile. È “Bright Horses”, forse il brano più toccante di “Ghosten”, a lasciare ancora una volta a bocca aperta. Un brivido superato solo dalla successiva “I Need You”, di una bellezza lancinante. In questo continuo saliscendi emotivo non mancano però i momenti di puro intrattenimento, come “Red Right Hand”, entrata ormai a far parte dell’immaginario collettivo come tema della celebre serie TV “Peaky Blinders”. Una mano regge l’immaginaria sigaretta comparsa magicamente sulla bocca di ognuno di noi, mentre l’altra sistema la coppola nel cui risvolto si nasconde una lametta. Che momento cult, mentre i suoni e i colori della Birmingham degli anni Venti sembrano passarci da parte a parte.
Da “Higgs Boson Blues” a “City of Refuge”, tra un “can you feel my heartbeat” e un “you better run”, lo show si avvia verso la sua innaturale conclusione. No, non è un refuso: dico “innaturale” perché è evidente che, fosse per i presenti, sia sul palco che sotto e intorno ad esso, questa notte non avrebbe fine. Ma l’encore dev’essere tagliato, perché il tempo è meno generoso di Nick Cave. Ci sono solo “Into My Arms” e “Vortex” nel congedo, ma poco male, perché è dell'imprevedibilità che nascono le cose memorabili, come questa.
Perché la musica è viva stasera. Palpita nel dolore, sopravvive ai suoi fantasmi e si fa eterna nella sua celebrazione.
SETLIST
Get Ready for Love
There She Goes, My Beautiful World
From Her to Eternity
O Children
Jubilee Street
Bright Horses
I Need You
Waiting for You
Carnage - Cover di Nick Cave & Warren Ellis
Tupelo
Red Right Hand
The Mercy Seat
The Ship Song
Higgs Boson Blues
City of Refuge
White Elephant - Cover di Nick Cave & Warren Ellis
BIS #1
Into My Arms
Vortex