Joe Satriani, professione guitar hero:"La chitarra non invecchia"

Era il 1986 anni quando uscì il primo album di Joe Satriani, intitolato profeticamente “Not of this earth”. Ed è vero che la sua chitarra gli ha consentito di essere un musicista ‘non di questa terra’, tecnicamente leggendario, musicalmente ‘ubiquo’, capace di suonare non tutto ma di tutto e di farlo lasciando sempre il suo inconfondibile segno.
Satriani è un ‘guitar hero’, insomma, nato dopo aver avuto la ‘visione’ di Jimi Hendrix e cresciuto cercando di trovare un punto di equilibrio tra emozione, abilità, spettacolarità e ricerca, alle volte trovandolo e alle volte no, come è giusto che sia. Oggi torna a noi con un nuovo album, “The Elephants of Mars”, che potrebbe incuriosire non solo i suoi fedeli seguaci ma anche un pubblico più ampio, perché è un album di clamorosa varietà sonora, di grande profondità musicale, divertente e ricco, vecchio e nuovo al tempo stesso, testimonianza di una passione per la musica che governa da sempre la sua vita.
Già, ma cosa trova ancora interessante un musicista come lui nella chitarra?
“Lo so, può sembrare una cosa retorica da dire, ma credo sia impossibile poter dire di conoscere la chitarra fino in fondo, anche per uno come me. Anzi, vorrei più ore, più giorni, più settimane e più mesi per poterne esplorare le possibilità. Amo, per mia naturale impostazione, il fraseggio melodico inusuale, le strutture armoniche sorprendenti, mi appassiona vedere la creatività dei musicisti più giovani, come riescono a spostare le frontiere sempre un po’ più in la. Mi ispirano a fare di meglio e di più, provo a tenergli testa ma so che non ce la farò. Ma il processo mi diverte, è quello che mi ha sempre spinto ad andare avanti. Del resto ho iniziato a suonare la chitarra per Jimi Hendrix, ho ancora un obbiettivo da raggiungere”.
Com’è possibile che ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire?
“È semplice: ogni secondo nel mondo nascono nuove dita e nessuna di queste ha la stessa personalità di altre dita. E se a questo aggiungi che il centro di gravità resta quello di raccontare delle storie, e che ognuno ne ha di diverse dagli altri, capisci perché la chitarra è sempre così interessante”.
C’è stato un periodo, però, in cui sembrava che la chitarra elettrica fosse ‘vecchia’, arrivavano le tastiere elettroniche. E poi i campionatori, i synth, i computer…
“È vero, ci sono sempre strumenti nuovi che permettono alle persone di creare cose diverse. Ma non per questo consideriamo il pianoforte o il violino degli strumenti ‘vecchi’. Ci sono fasi, momenti, periodi in cui il suono di uno strumento può prendere il sopravvento sugli altri, ma gli altri restano sempre, anzi chi crea ha a disposizione più strumenti per farlo, ed è un bene”.
Quindi la chitarra non è andata un po’ ‘fuori moda’?
“Non credo. O meglio: è vero che per alcuni tipi di musica contemporanea il suono della chitarra è meno adatto. Ma le musiche contemporanee sono innumerevoli e la chitarra in realtà è ovunque…”.
“The Elephants of Mars” è un album che ha dentro una grande varietà di sonorità, di approcci, di strutture, è un album che potremmo definire rock, c’è del prog, c’è dell’elettronica, ci sono momenti molto ritmici ed altri atmosferici. E’ un percorso libero da ogni costrizione.
“Si, amo tutti i generi musicali, sono cresciuto con il rock ma in casa si ascoltava anche jazz o musica classica, amavo tutto, non c’era musica che proprio non mi piacesse per un motivo o un altro. Quando ho iniziato a scrivere per chitarra tutto quello che avevo ascoltato è venuto fuori. Quindi è facile per me passare da un genere all’altro o mescolarli, dalla dance al jazz, in questo atteggiamento ci ritrovo le mie radici. E faccio ancora così: quando mi metto a dipingere posso ascoltare per un paio d’ore i Black Sabbath e poi passare a una selezione reggae…”.
In questo album sembra di essere più vicini alla sua idea di musica, c’è un perfetto bilanciamento tra composizione e improvvisazione. Dopo anni di esperimenti, di viaggi musicali, di esperienze, pensa di essere più vicino a quella che pensa debba essere ‘la musica di Joe Satriani’?
“Ho sempre lavorato cercando si avere la migliore scrittura, il miglior suono, la migliore performance, il meglio di tutto. Ma ho iniziato a sentire che cercare di raggiungere questi obbiettivi a tutti i costi non era quello che mi serviva. Questo mi ha spinto ad aprire i miei limiti stilistici, cercando quale fosse il ‘focus’ di ogni cosa. Alle volte vuoi fare un disco rock, o prog, o blues, e il focus ti aiuta a eliminare le cose confuse o che possono non essere comprese da chi ti ascolta. Invece questo album è stato all’opposto, è un album di inclusione, nel quale volevo mettere di più di ogni cosa e soprattutto di più di me stesso, portare la mia chitarra più vicina a chi ascolta. Avevo voglia di dare cose diverse da quelle che mi hanno detto di fare nei diciotto album precedenti, volevo suonare tutto quello che volevo suonare. E così è stato”.
È ovvio che la tecnica le consente di esprimere meglio quello che vuole, ma spesso la tecnica diventa un modo per sopperire alla mancanza di idee e uccide l’emozione.
“È vero, la tecnica è anche un rifugio, ma io credo di aver superato da un bel po’ la fase in cui dovevo dimostrare qualcosa a me stesso e agli altri. Quindi oggi cerco il giusto equilibrio tra tecnica e emozione, equilibrio difficilissimo da trovare. E’ l’ispirazione che ti spinge in quella direzione e la tecnica diventa solo uno strumento per raggiungere l’obbiettivo, la ragione ti guida e il cuore di indica dove andare. E’ molto importante: pensa alla ‘Serenata al chiaro di luna’ di Beethoven, pensa a quello che lui ha tolto mentre la componeva per ottenere quello che ha ottenuto, ovvero un brano che per centinaia di anni ha donato gioia e bellezza. Sono poche note e non c’è nulla della bravura ‘tecnica’ di Beethoven. Ecco, credo che un buon chitarrista debba sapere questo, riconoscere cosa togliere non cosa aggiungere. Credo che nell’album ci siano due esempi che spieghino questo approccio, ‘Faceless’ e ‘Desolation’, buoni esempi di quello che non faccio, tenendo il focus sugli elementi importanti, raccontando una storia che possa toccare il cuore”.
L’album, come del resto molta della sua musica, mette in primo piano la sua passione per la fantascienza, legandola con la chitarra persino nella copertina, dove gli ‘elefanti’ sono stilizzati con lo strumento…
“E’ una passione che ho fin da piccolo. Ricordo di avere avuto problemi da ragazzino a scuola, avevo 7 anni, e il prof urlava in classe perché stavo sempre con la testa tra le nuvole, guardavo fuori dalla finestra invece di ascoltare le spiegazioni. E quando lui urlava io rispondevo che ero fuori nello spazio, lui si arrabbiava e i compagni di classe si divertivano molto. Ma era una risposta innocente, e in parte vera, perché io vedevo lo spazio che si estendeva fuori da quella finestra. E quello che mi affascinava allora mi affascina ancora adesso, perché siamo su questa palla all’interno del sistema solare e nessuno sa bene dove siamo e perché, cosa ci stiamo a fare o cosa dovremmo fare. Quello fu l’inizio, ma non continuato a pensarci e ho scoperto che esisteva una letteratura che parlava di queste cose. La gente pensa che la fantascienza sia roba leggera, invece parta di cose importanti, di politica, di religione, di filosofia, di scienza, delle grandi questioni della nostra esistenza. E non parla del futuro, ma di noi qui e ora. La fantascienza ha aperto le porte a molte cose, parla di quello che potrebbe essere, e senza gli scrittori di fantascienza molte invenzioni forse non sarebbero mai arrivate. Per me è una materia molto naturale”.
Chitarra, fantascienza, ma anche pittura…
“E’ stato un colpo di fortuna quello di scoprire, con l’aiuto di altre persone, che avevo la possibilità di dipingere. E’ un estensione della mia creatività, non ho idea di perché mi senta spinto a scrivere una canzone o a dipingere un quadro, ma so che amo creare un’altra realtà con la mia arte. La musica racconta le cose in un'altra maniera, e anche la pittura lo fa. Prendi i quadri di Modigliani, quello che che ha fatto con i ritratti è incredibile, un po’ come la fantascienza, non è completamente anatomico, non è esattamente reale, ma allo stesso tempo è vero, è emozionante, è espressivo. E questo è parte integrante dell’essere umani”.
Tra poco finalmente tornerà in concerto. E ha confermato le date italiane per il 2023…
“Come può immaginare per me, la band e la crew non lavorare per due anni e più è stato davvero molto difficile. Io sono stato occupato perché avevo tanto lavoro da fare alla mia scrivania, anzi lavorare in solitudine ha fatto si che “The Elephants of Mars” venisse in questo modo. Ma suonare dal vivo è qualcosa che non è possibile sostituire con altro. L’ultima volta ero sul palco con Steve Vaii e pensavano di essere all’inizio di un grande anno e invece in poche settimane è tutto finito. Qualche settimana fa ho fatto per la prima volta dalla pandemia una mostra con tante persone, abbiamo parlare di arte e musica e sono rimasto scioccato dal capire quanto mi era mancato anche questo, parlare con altri delle cose che ami, parlare di chitarre o anche di pennelli. E mi manca l’interazione con il pubblico, non c’è nulla che manchi di più. Ma torneremo, onoreremo tutti gli impegni presi prima e quindi ci rivedremo tra poco”.