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Canzoni italiane: “Cosa mi manchi a fare” di Calcutta

Ventuno canzoni italiane pubblicate nell’ultimo ventennio, raccontate da Vincenzo Rossini.
Canzoni italiane: “Cosa mi manchi a fare” di Calcutta

“Cosa mi manchi a fare” di Calcutta

da MAINSTREAM, Bomba Dischi, 2015

 

“Cosa mi manchi a fare” richiama quel momento magico in cui si è percepito veramente che il nuovo indie pop italiano sarebbe diventato qualcosa di più di una next big thing per le nicchie. Canto di una delusione amorosa che ha lasciato tramortiti e inno della relativa necessità di rimettersi in piedi, mette in fila, in meno di tre minuti, tutto quello che non si sente altrove, specie in un airplay radiofonico ormai dominato dall’inconsistenza del talent pop: un tono intimo e colloquiale, per niente ruffiano e invece vicino, in alcuni momenti, a una sorta di ossessività; un’autenticità urlata, che sembra trapassare i confini dello spettro sonoro, in cui rivive il Vasco più disperato; un’energia tangibile, effetto di struttura musicale concentrata e priva di sprechi, merito anche del contributo di Niccolò Contessa nel ruolo di produttore, che intuisce il potenziale melodico di Calcutta prosciugando il superfluo e mettendo al centro dello spettro sonoro la sua inquieta solitudine, lasciando qua e là soltanto qualche tranello elettronico, come carcasse di edifici incompleti.

 

Più di ogni altro elemento, tuttavia, a marcare il distacco è il vocabolario calcuttiano, che fa a pezzi la consecutio standard del racconto amoroso lasciando per terra solo frammenti apparentemente distanti, che accostati danno vita a esplosioni di senso: “Raggiungermi è un orgasmo da provare / ricordami le olive sono buone / mi prenderò un gelato con il tuo sapore / ti spaccherò la faccia se non mi dai il cuore”. È una scrittura fatta di apparenti assurdità che diventano ganci nella memoria (“Pesaro è una donna intelligente”), che non chiede di essere interpretata o riconnessa ma soltanto di pulsare con il tremore delle ferite aperte dentro chi sta ascoltando, libero di prelevare versi e farli diventare slogan di disfacimento, smarrimento o, in questo caso, di riaffermazione di un’identità sotterrata: “Ma non mi importa se non mi ami più / e non mi importa se non mi vuoi bene / dovrò soltanto reimparare a camminare”.

 

Personaggio enigmatico, spigoloso, estraneo alle modalità canoniche di esibizione del sé (rispetto alle nuove star itpop come alle icone rap), Calcutta porta in dote una verità altra, una marginalità al confine con l’insensatezza, assoluta e imprendibile, figlia di una precarietà esistenziale portata all’estremo. All’apparenza è un post-freak di stanza bolognese depauperato di ogni intenzione civile/politica, come Vasco era un post-emiliano da ostracizzare per la sua completa dissociazione dalla Storia: e se la Storia la si comprende solo col tempo, non è ancora possibile decifrare del tutto Calcutta, il Cantautore Simbolo degli anni Dieci, in due anni passato dalle scalcagnate notti ebbre del Fanfulla romano ai sold out nei palazzetti di tutta Italia, interpretati sempre con la consueta ritrosia.

 

Un’ipotesi però la si può fare: che in quell’impulso a dover “reimparare a camminare”, con quel prefisso “re-” così strano eppure così acusticamente aderente all’immagine di una strada percorsa a vuoto o una fatica fatta per niente, ci sia qualcosa di più di un amore andato a puttane. Come se una generazione azzoppata in partenza avesse riflesso nei versi di questo antieroe del disagio urbano proprio la ricerca disperata di un’energia nuova a cui aggrapparsi per tracciare finalmente un cammino da protagonisti, nonostante tutto. E che persino uno come Calcutta ce l’abbia fatta è il trionfo simbolico che celebra la ragion d’essere di una speranza.

 

(di Edoardo D’Erme / © Puro/Universal)

 

 

La scheda è tratta, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, da “Unadimille – 1000 canzoni italiane dal 2000, raccontate”, edito da Arcana, al quale rimandiamo per le altre 980 schede.

(C) Lit edizioni di Pietro D'Amore s.a.s.

 

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