Black music, dischi fondamentali: Aretha Franklin, "I Never Loved a Man..." (1967)

Aretha Franklin
I Never Loved a Man the Way I Love You (Atlantic, 1967)
Una discografia immensa, nei cui meandri si nascondono però cadute di stile all’insegna del pop più becero e commerciale, fanno di Aretha la prima figura femminile che viene in mente quando si pensa al soul. Certo, in proposito conta anche il ruolo rivestito tra le pareti di quella caffetteria in cui tutti vorremmo farci urlare addosso un altro "Think" (nel film "The Blues Brothers"), ma era già il 1980, e la signora merita di essere ricordata soprattutto per ciò che è successo prima di allora.
Ci piace pensare che, se pure fosse rimasta per sempre tra i sermoni del padre, il destino avrebbe comunque fatto in modo che la sua voce giungesse fino a noi, a tal punto è perfetta. Pastore di una chiesa in Michigan, nonché prolifico e apprezzatissimo cantante gospel, c’è da credere che il reverendo C.L. Franklin avesse intuito come sarebbero finite le cose già da quella volta in cui il suo amico, Sam Cooke, gli fece ascoltare i versi profani su cui aveva immolato le corde vocali. In fondo, una figlia corteggiata dai talent scout della Columbia, capace di maneggiare tanto gli standard jazz quanto quelli blues, nonché i profumi zuccherosi delle hit da classifica, non era poi un così grande rammarico. Anche perché il successo vero, quello che ti cambia per sempre, sarebbe arrivato soltanto quando Jerry Wexler riuscì finalmente a portarsi la ragazza dietro i microfoni della Atlantic, per farle incidere il monumentale “I Never Loved a Man the Way I Love You”.
A quelle date gli uomini di Aretha erano già diventati due, essendosi sposata con il suo manager Ted White, figura controversa e causa di tanti dolori nel futuro che la attendeva. Era una regina sì, ma con poca voglia di comandare: intrappolata in un reame che, all’altezza di questo nono album a proprio nome, assumeva definitivamente le dimensioni del castello fatato; purtroppo con tanto di prigioni e stanza delle torture. I musicisti sono quelli cresciuti tra la vegetazione impervia di Muscle Shoals, e poco importa se "Respect" è farina del sacco di Otis Redding, "Drown in My Own Tears" era già stata carezzata da Ray Charles e "A Change Is Gonna Come" aveva sopra i singhiozzi di Sam Cooke. La figlia del reverendo riusciva ad appuntarsele tutte magnificamente bene, su quel suo candido corpetto fatto solo di piume d’angelo.
Carlo Babando
Il testo di questo articolo è tratto dal libro "Blackness", di Carlo Babando, pubblicato da Odoya, ed è qui riprodotto per gentile concessione dell'autore e dell'editore.
