“Decamerock”: la storia di Ian Curtis

Il ritratto di Ian Curtis dal libro “Decamerock” di Massimo Cotto
Forse l’amore ci separerà, ennesimo schiaffo della vita a chi si illude che ci sia un tempo delle mele per tutti, anche quando l’adolescenza è lontana come l’oasi per l’assetato, nel deserto del quotidiano.
Ian Curtis, suo malgrado, ci ha consegnato un antitestamento, una frase che non può sollevare gli animi e nemmeno essere presa come punto di riferimento, da scolpire sulla pietra. Il suo non è un canto di speranza, un bagliore utopista, uno scarto di rabbia generazionale. Quello di quest’uomo fragile come un cristallo, che ha scritto pagine bellissime con i suoi Joy Division (la band dark e disperante che prendeva il nome dalle baracche dove nei campi di concentramento i nazisti trovavano gioia sessuale), è un grido d’impotenza.
Se nemmeno l’amore è in grado di tenerci uniti, a cosa serve lottare? Infatti, Ian Curtis, cresciuto nel grigiore di Macclesfield, nella contea del Cheshire, nel Nord monotono e industriale dell’Inghilterra, si toglie la vita a ventitré anni. Si impicca a casa dei suoi genitori, dopo aver visto un film di Werner Herzog, “La ballata di Stroszek”, che parla di un suicidio, e ascoltato “The Idiot” di Iggy Pop. Dopo essersi convinto, una volta di più, che non c’era rimedio a nulla.
Ian soffriva, come tanti, come troppi, di quel morbo terribile e incurabile che è il male di vivere. A un primo guardare, a un sommario sentire sembra raccontasse l’alienazione del periodo postindustriale. Invece no. Quello che metteva in musica era l’isolamento dell’individuo. Melodie a tratti dissonanti, ma mai violente. Atmosfere di morte e solitudine, ma soprattutto di impotenza. Impotenza nel condurre una vita normale e nel vincere quella maledizione che ti accompagna fin dalla nascita: non conta amare o essere riamati, perché sarà proprio l’amore a separarci, ultima sconfitta che toglie persino la speranza del miracolo.
Ian Curtis scoprì, mentre tornava a casa da un concerto all’Hope and Anchor di Londra, di essere epilettico. È il primo episodio che segna in maniera indelebile il suo cammino. Ecco che cos’erano quei movimenti strani ai quali si sentiva quasi obbligato, quelle crisi che spesso aveva sul palco, sotto le luci stroboscopiche e nel buio interiore in cui era immerso. Il pubblico pensava a una danza macabra, invece erano lievi attacchi epilettici che, una volta dopo l’altra, si facevano sempre più intensi.
Il secondo episodio che devasta Ian Curtis non ha, paradossalmente, a che fare direttamente con lui. Nei primi tempi con i Joy Division, per trovare di che vivere presta servizio come assistente sociale a Manchester e poi come assistente ai disabili a Macclesfield.
Tra i tanti che cerca di aiutare c’è una ragazza, anche lei epilettica. Un giorno, lei non si presenta all’appuntamento. Lui si informa. Gli dicono che è morta.
Ian Curtis scrive una canzone, “She’s Lost Control”, perché a volte le canzoni sono terapeutiche, servono a lenire i dolori, a isolarli, ad arginarli per un po’. Ma su di lui l’effetto è opposto. Ogni volta che canta “She’s Lost Control” si ricorda che la ragazza è morta e che lui, che soffre dello stesso male, potrebbe fare la medesima fine. Alla vigilia di un nuovo tour, scrive una lettera d’amore alla sua Deborah. Poi si impicca. E appende la sua disperazione a quel gancio lontano dove non esiste più nulla, nemmeno un rumore. E dove tutti hanno il pieno controllo della vita che hanno avuto in dono.
Domani racconteremo la storia di Stu Sutcliffe
Le storie già pubblicate:
“Decamerock”: la storia di Richey Edwards
“Decamerock”: la storia di Janis Joplin
“Decamerock”: la storia di Nick Drake
Tratto, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Marsilio, dal libro “Decamerock”, sul quale potrete leggere altre 100 storie di vite rock.
