
Rimanere rilevanti dopo quasi 40 anni di carriera è un’impresa ardua. Per tutti, e soprattutto se arrivi dal pop, dove suoni e mode cambiano alla velocità della luce. I Duran Duran tornano 5 anni dopo "All you need is now" - e ci provano con questo "Paper gods", in uscita il prossimo 18 settembre. E calano diversi assi.
"Paper gods" è il quattordicesimo disco di studio Simon LeBon e compagni, nonché il primo per la Warner - è stato in larga parte prodotto dalla band, che in alcuni casi si è però fatta aiutare da nomi come Mark Ronson (che aveva già lavorato all’album precedente), Mr. Hudson e Nile Rodgers, che negli ultimi anni è diventato - se possibile - ancora più importante di quello che già era e con cui la band aveva già collaborato negli anni ’80. E poi ci sono Janelle Monáe, Kiesza, John Frusciante, e persino Lindsey Lohan. Insomma, uno dei modi per rimanere rilevanti è allungare la lista degli ospiti - tanti e di peso. La carta del ritorno sulle scene se l’erano già giocata all’inizio degli anni zero, quando si riunì la formazione originale (Andy Taylor poi se n’è andato).
E poi c'è l'altro metodo di ricerca della rilevanza, quello dell'aggiornamento del sound, possibilmente mantenendo ben fermi alcuni punti, anzi giocando con il passato. Il risultato? "Paper gods" è un album che ammicca pesantemente alla storia del gruppo, cerca allo stesso tempo di essere attuale, e prova a guardare al futuro. Per dire, la copertina è un nuovo collage di riferimenti al primo periodo del gruppo (Il cappello della chaffeur, la tigre, lo champagne di "Girls on film"...). E Il primo singolo "Pressure off" (uno dei cinque brani già diffusi in rete) è basato sulla chitarra di Rodgers, e ricorda proprio "Notorius".
Poi ci sono i tentativi di suonare attuali, a tutti i costi. E non sempre funzionano: "Last night". il duetto con Kiesza è electropop senza arte né parte, con i tastieroni e la voce della cantante in apertura. Sembra un pezzo di Kiesza, e non è un complimento.
Decisamente meglio "Paper Gods", che è la cosa più interessante dell’album: 7 minuti, in cui il gruppo prova - e ci riesce, benissimo - a non suonare banale, a percorrere nuove strade.
In altri momenti, i Duran Duran provano a rifare un po’ il gioco dei Daft Punk (l’attacco di "Danceophobia"), ma senza la stessa classe; provano a rifare stessi, in versione aggiornata (la ballata "What are the chances?", con l’elettronica che colora il tutto, il pop di "Sunset garage" e "Change the skyline", l’inizio di "Butterfly girl").
Un discorso a parte merita la presenza di Frusciante, in tre brani: colora "Only in dreams" (con un giro funky alla Nile Rodgers), la finale "The universe alone" e What are the chances?" (un assolo appena accenato). Un tocco discreto, ma presente: la vera svolta musicale sarebbe stato averlo come chitarrista di ruolo per tutto l’album: dai tempi dell’uscita di Andy Taylor il gruppo ha non ha un vero chitarrista e un apporto del genere avrebbe dato un suono più omogeneo all'album.
Alla fine, "Paper gods" è un buon disco - ma appunto un po’ disomonogeneo, tenuto assieme soprattutto dalla voce di Simon LeBon, quella sì davvero inconfondibile. Dentro ci sono tante idee, alcune molto diverse tra loro, e non sempre funzionano. E' del buon pop, scritto, suonato e prodotto bene - ma questo, e tutti questi ospiti - non è la garanzia che i Duran Duran del 2015 siano ancora rilevanti. Se lo sono è soprattutto per il loro nome e per la loro storia: chi è cresciuto musicalmente negli anni ’80 non può potrà fare a meno di ascoltare con piacere questo album - anche chi al tempo non li poteva soffrire: la nostalgia appiana le differenze. "Paper gods" è un lavoro che rende onore a questo nome e questa storia. Non è poco, ma può non essere abbastanza.
(Gianni Sibilla)