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Barzin dal vivo al Cabaret di Portalba di Napoli: il report del concerto

Appuntamento napoletano al Cabaret di Portalba per il tour di Barzin, in Italia per promuovere il suo ultimo lavoro, “To live alone that long summer”, pubblicato da noi da Ghost Records. Si potrebbe facilmente riassumere la serata citando il titolo di un saggio sulla scrittura di Raymond Carver: “Niente trucchi da quattro soldi”. Barzin e compagni sono arrivati sul palco, hanno imbracciato gli strumenti e hanno offerto con semplicità e naturalezza la loro arte a un pubblico numeroso e coinvolto che è entrato subito in sintonia con il mood della serata.

Dopo il set di apertura affidato a Mr. Milk, malinconico folk-singer locale, il songwriter canadese di origini iraniane si è presentato accompagnato da una band di quattro elementi: oltre a lui alla chitarra acustica, abbiamo Jesse Turton (basso elettrico), Nicholas Alexander Zubeck (chitarra elettrica e lap steel), Amy Beth Manusov (vibrafono e backing vocals) e Marshall Adam Bureau (batteria). 

L’ensemble produce un suono avvolgente, estremamente misurato, ma caldo e compatto.  Anche dal punto di vista visivo il gruppo ha una sua stabilità: il leader, con indosso la classica divisa da uomo comune (giubbino e pantaloni in jeans), ha un atteggiamento molto pacato, e non potrebbe essere altrimenti; dietro di lui, la sezione ritmica si scorge a fatica, mentre il chitarrista con camicia a scacchi di ordinanza si muove appena durante i brani. Alla sinistra di Barzin, la statuaria Amy Beth Manusov rappresenta l’unico elemento di rottura nella stabilità visiva del palco: con l’espressione enigmatica che ha sul volto mentre produce le note lunghe e dondolanti del vibrafono sembra quasi incarnare tutto il non-detto di stasera, tutto ciò che è volutamente taciuto, o solo accennato, nella musica di Barzin.  

Con i primi tre brani, tutti tratti dall’ultimo lavoro, appare subito chiaro che la resa dal vivo risulta più profonda, l’intenzione è un po’ più sanguigna, e le canzoni ne guadagnano, se possibile, rispetto alle esecuzioni su disco. L’apertura è affidata a “Without your light”, seguita dal primo singolo, “All the while”, per poi passare a “You were made for all this”. Dopo di che, Barzin si rivolge al pubblico per la prima volta, facendo riferimento all’immancabile pizza che hanno mangiato a cena, e ricevendo l’altrettanto immancabile applauso dal caloroso e nutrito pubblico napoletano. Più avanti nel set si lancerà in un paragone tra le madri del bel Paese e quelle della sua terra d’origine – sembra che condividano l’esasperata attenzione per i propri figli.

Barzin è molto, molto misurato: accarezza le corde della chitarra, lasciandosi andare a qualche plettrata più sostenuta soltanto in pochissime occasioni, e la sua voce si appoggia sull’elegante tessuto sonoro prodotto dalla band in maniera del tutto naturale. Si possono sentire molte cose, numerose influenze che si incrociano nei diversi brani, ma questa, in definitiva, è l’essenza della folk-music: non si sa dove vada, ma sappiamo molto bene da dove viene – e va benissimo così.

Il concerto prosegue ripescando alcuni brani storici: “Past all concerns”, dall’album di debutto, “Barzin” (2003), è seguita da “Nobody told me” (“Notes to an absent lover”, 2009). Poi, l’attacco di “Let’s go driving”, da “My life in rooms” (2006), strappa una piccola ovazione da parte del pubblico in sala, prima di arrivare alla vetta lirica della serata con la cover di “Cross the Road, Molina”, dell’indimenticato Jason Molina. Barzin invita sul palco Sina, un altro musicista iraniano residente a Toronto per caso in Italia in questi giorni, che suona il Santur, uno strumento tradizionale iraniano (è una specie di dulcimer, con 72 corde che vengono percosse con un paio di piccole bacchette chiamate “mezrab”). Nella lunga coda strumentale del brano, la band allenta un po’ i freni e s’impone in particolare il batterista, in un crescendo di fraseggi ritmici di gran gusto ed altrettanta efficacia.

Si torna poi all’ultimo lavoro con “It’s hard to love blindly”, ballatona in 6/8 con la lap steel in gran spolvero: quando il nostro canta il verso “Prescriptions and pills,
didn’t bring me the thrill,
of dreaming
about all those girls,
those Italian girls” (Le prescrizioni mediche e le pillole non mi hanno indotto il brivido di sognare tutte queste ragazze, queste ragazze italiane), riesce a strappare più di un sorriso al pubblico – e al sottoscritto, ovviamente.  Tocca poi a “In the dark you can love this place”, dall’andamento ritmico vivace, prima di tornare al passato con “My life in rooms”, sempre dal disco omonimo, e “Queen Jane”, da “Notes to an absent lover” (2009).

Chiude il set la magnifica “Fake it ‘till you make it”, con il suo incedere cadenzato e ipnotico che per qualche misterioso motivo il mio cervello collega a uno dei miei brani preferiti di Dylan, “Most of the times”. Dopo i saluti e i ringraziamenti di rito, Barzin e compagni tornano sul palco per regalare l’ultima perla di una splendida serata: “Won’t you come”, dilatata e sognante, manda tutti a casa con il cuore in subbuglio, com’è giusto che sia. E solo quando anche l’ultimo riverbero dell’ultima nota è svanito, e i musicisti stanno già smontando la strumentazione, realizzi pienamente la forza della musica di Barzin, che risiede nell’ammantare di un’apparente e misurata placidità le quotidiane difficoltà dell’esistenza, cantandole con una pacatezza priva di vergogna o inibizioni, uomo tra gli uomini, senza alcun bisogno di strampalate pose artistoidi o di effetti speciali. 

(Fabrizio Coppola)

 

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