Jake Bugg dal vivo all'Alcatraz di Milano: il report del concerto
Potrebbe essere stato interessante aver visto Jake Bugg dal vivo a qualche mese di distanza dall'uscita di "Shangri La", la seconda prova scomoda (e ingombrante), specie dopo un debutto come il suo, che ad oggi resta ancora una crisalide pronta a trasformarsi in una delle fondamenta di una lunga e fortunata carriera o in un bacio della morte: interessante perché è chiaro come il diciannovenne di Nottingham, a dispetto della vulgata che lo vuole ambasciatore dell'indie folk presso un pubblico (quasi) anagraficamente conteso a directioners e belieber, la sua strada la stia ancora cercando, con molto più travaglio di quanto non possa apparire.
Il talento nello scrivere canzoni, quello c'è, e anche quello di farle rendere dal vivo: la setlist presentata all'Alcatraz di Milano - pressoché identica a quella presentata nelle date che hanno preceduto la sua esibizione italiana di ieri sera - calibra bene repertorio e atmosfere, con l'apertura affidata alla nuova "There's a beast and we all feed it" alla quale è stato messo in coda un trittico dal disco di debutto, "Trouble town", "Seen it all" e "Simple as this", per poi fare la spola tra le tracklist dei due lavori in studio - da "Storm passes away" a "Two fingers", da "Messed up kids" a "Ballad of Mr Jones" - prima di lanciarsi, praticamente a metà del set, in un intermezzo acustico, con "Country song", "Pine trees" e "A song about love" - per poi tirare la volata al finale con i pezzi forti del nuovo lotto - tra gli altri, "Kingpin", "What doesn't kill you" e "Slumville sunrise" - a un bis che schiera "Broken" (sempre in acustico) come ultima tappa prima del tripudio finale con una versione sporcata di crunch della younghiana "Hey hey, my my" - astutatemente in equilibrio tra "Out of the blue" e "Into the black" - e "Lightning bolt". Tecnicamente nulla da eccepire: la formazione a tre è efficace, con una sezione ritmica precisa, discreta e puntuale. Niente di eccezionale, certo, ma poco male, perché il punto potrebbe essere un altro.
L'impressione è che Bugg abbia trovato nei codici che affondano nella tradizione country e rock'n'roll primigenio la sua formula ideale, e che la sua formula ideale l'abbia trovata al momento giusto. Che se per certi versi è una fortuna - aprire per i Rolling Stones, fare un disco con Rick Rubin e un paio di tour mondiali prima dei vent'anni crea anticorpi formidabili, se si sopravvive - per altri è un pericolo enorme: Bugg, successo o meno, sta attraversando la fase di completamento della personalità artistica. Le bordate di hype e la prestigiosa (ma opprimente, a sentire chi ci ha lavorato) ombra di Rubin non sono semplici distrazioni, specie in un momento - per lui - come questo. Ecco perché dietro al broncio d'ordinanza esibito anche ieri sera protrebbe covare qualcosa di più che non una comoda carriera da singer/songwriter da under trenta a medio-alta scolarizzazione. E glielo auguriamo, anche a costo di un paio di passi falsi, del voltafaccia delle firme à la page e di un paio d'anni forzatamente sabbatici. Perché, se succederà, vorrà dire che la prossima volta che lo andremo a vedere ce lo gusteremo come questa, ma con molte, moltissime certezze in più...
(dp)
Setlist:
"There's a Beast and We All Feed It"
"Trouble Town"
"Seen It All"
"Simple as This"
"Storm Passes Away"
"Two Fingers"
"Messed Up Kids"
"Ballad of Mr Jones"
"Country Song" (acustico)
"Pine Trees" (acustico)
"A Song About Love" (acustico)
"Slide"
"Green Man"
"Kingpin"
"Taste It"
"Slumville Sunrise"
"What Doesn't Kill You"
Bis:
"Broken" (acustico)
"My My, Hey Hey" (cover di Neil Young)
"Lightning Bolt"