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Kurt Cobain, vent'anni dopo

di Paolo Madeddu

Che CONCEPT perfetto. Che MEME cristallino. Che PROGETTO impeccabile. Che SCRIPT senza tempo.
“Disadattato di provincia diventa supermegarockstar nichilista e tardopunk e conquista il mondo; si accoppia con vistosa cretina alternativa, si droga senza risparmio perché vedi, ci ha i fantasmi dell’insicurezza e del successo che lo strangolano - poi scrive un messaggio d’addio in cui cita il verbo più cupo di Neil Young sul rock, prende uno schioppo, e si autodistrugge a 27 anni come le altre leggende”.

Wow.

Sì, lo so cosa pensate. Non c’è il gusto geek del pastrugno alla JJ Abrams, né il disfunzionalismo caruccio alla Wes Anderson, non c’è la suadente decadenza di un Ryan Murphy; toh, giusto Gus Van Sant, poteva comprarlo. È un copione privo di détournement, signora mia – però dai, c’è la sua pretesa, la quale allora come oggi può bastare a fare metà del lavoro. Nessuno lo nega: a guardarlo qui e ora, il plot, cui non sono estranee le mosse sapienti dei due dischi successivi al totem "Nevermind" (la supercredibilità aka "In Utero", il compromesso con MTV nei migliori termini possibili aka "Unplugged") è abbastanza elementare. Non è visionario, non è duepuntozero, ma d’altro canto, amici, ora è difficile concepirlo, ma erano anni lineari: era l’inizio dei Novanta, non erano ancora tempi post-post-post. E fu un trionfo, uno scacco matto in cinque anni concepibile solo da un’industria in salute, ben pasciuta dal boom nelle vendite degli anni 80. Un’industria abituata a mettere una generazione contro la precedente, da Woodstock ai Sex Pistols all’edonismo degli 80, fino al successivo giro di valzer, il grunge. E bravino anche Coso, sì, insomma, lui: Cobain - a fare quello che doveva fare, a sacrificarsi in nome di quanto di più imbecille e retorico il rock (e il suo figlio neonato ma già babbione, l’indie rock) portava con sé. Non ne fanno più, così ubbidienti. Trovatelo, uno talmente in fissa da lasciare una bambina senza padre pur di fare La Cosa Giusta.

(...quando al momento di ririririlanciare il rock sono andati a chiederlo agli Strokes o ai White Stripes, di sacrificarsi, gli hanno riso dietro)

È stato un trionfo, si è detto. E continua ad esserlo. Non saremmo qui a parlarne, non sareste qui a leggerne, non ci sarebbero ovunque tweet e condivisioni e articoli pro e articoli contro. Gente che si distingue postando sulla bacheca "Negative Creep" (leggi: “Ciò ke hanno fatto dopo era establishment”) o "Heart Shaped Box" (leggi: “Ecco, lui lo aveva capito, l’amore è quella cosa lì”) o un pezzo da "Incesticide" (leggi: “Ha! Mentre VOI postate "Smells like Teen Spirit", IO, invece...”) o, per dispetto, il dialogo da "The Wrestler" tra Randy “The Ram” Robinson e la stripper Cassidy:

“Then that Cobain pussy had to come around and ruin it all”.
“Like there’s something wrong with just wanting to have a good time”.

Il problema è che questa favola bella della leggenda che si spara leggendosa, fa più il gioco di quelli che odiano la musica, che non di quelli che la amano. Sposta la questione dalla musica alla Vita del Santo e Suo Martirio. Pregiudica una valutazione non emozionale (e non superficiale) dello spessore musicale e poetico dei Nirvana. E questo, tutti quelli che i Nirvana li hanno amati davvero, lo sanno meglio di chiunque. Quando diventi icona (e cliché), quando sei cibo per Carlo Lucarelli o per la pubblicità di una birra con le star morte, importa a pochi dei tuoi power chords o delle tue strofe più fulminanti (“I love myself better than you; I know it is wrong, what should I do?” è il mantra di una generazione), né tantomeno delle tue interviste (la maggior parte delle quali sconclusionate, ma tanto era per canzonare i media e il pubblico, giusto?) (o forse no). Non importa più chi eri e cosa facevi e perché lo facevi, e cosa avresti potuto fare. Esci dalla musica, e diventi una stupida leggenda globale, l’emblema di un tormento, lo spot dell’arte in lotta con l’establishment e con i suoi stessi fan, una t-shirt che dichiara stilosamente pessimismo e fastidio, un argomento di conversazione da tirare fuori a ogni anniversario, una sbrodolata definitiva su un blog, un copione, un concept, un meme, un 27, un guizzo di Moulin Rouge, una copertina, un hashtag, un mulatto, un albino, una zanzara.

Ma perché questo articolo, allora?

Per celebrare Kurt Cobain? Ovviamente no. Anche perché quello, nel caso, lo si è fatto, e opportunamente, per gli anniversari dei dischi dei Nirvana – accompagnati del resto da ripubblicazioni deluxe che ne offrivano il pretesto.

Per denigrare Kurt Cobain? Gente, più di quanto lo abbia fatto lui, è impossibile. Nessuno più di lui ha danneggiato la musica che suonava, tirandole un colpo di fucile, bloccandola in una stupida icona. E che non ci venga a dire che non lo sapeva.

Bene! Grazie per l’attenzione. Ci risentiamo tra cinque anni.

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