Entrambi i contributi appartengono alla schiera delle reinvenzioni "creative", categoria che nella circostanza vede primeggiare - e non è una sorpresa - Lou Reed e Brian Eno : nelle mani del primo, "Solsbury Hill" perde ogni parvenza pop per trasformarsi in un mefitico talking blues immerso in una soluzione acida di feedback; in quelle del secondo, "Mother of violence" (una vecchia e dimenticata perla da "Peter Gabriel II") diventa un rosario noise snocciolato con voce atona che rigetta il cuore melodico della canzone per amplificare il mood inquieto e nervoso del testo. Prendere o lasciare, e certo i due colossi non conoscono i timori reverenziali di Regina Spektor ("Blood of Eden") o degli Elbow ("Mercy street"), le cui riletture sono troppo ossequiose e simili agli originali per farsi ricordare e trasmettere un brivido autentico (meglio Feist , allora, che con Timber Timbre capovolge il dialogo uomo-donna di una "Don't give up" ipnotica, orientaleggiante e un po' tribale). Anche dalla "Games without frontiers" energica ma poco dinamica degli Arcade Fire sarebbe stato lecito aspettarsi di più; al contrario Randy Newman , che di Gabriel è un padre putativo riconosciuto, sembra essersi divertito non poco a smantellare la grandeur electro-funk di "Big time" per concentrarsi su un testo paradossale e sardonico adatto alla sua voce acidula e alle sue corde, mentre a
Artisti Vari - AND I'LL SCRATCH YOURS - la recensione
Recensione del 18 ott 2013 a cura di Alfredo Marziano
Voto 6/10
Inseguire gli artisti che aveva invitato a partecipare a questo disco di cover, ha spiegato
Peter Gabriel
al Guardian, è stato un po' come cercare di mettere in riga un gruppo di gatti randagi. La metafora calza alla perfezione a un disco alquanto indisciplinato, in cui si respira un'aria estemporanea e un senso di allegra anarchia. Ci sarebbe voluto uno con il polso e le credenziali di Hal Willner, per dire, per trasformarlo in un progetto più organico e coerente, e forse lo stesso Gabriel non ambiva a tanto: dopo essersi fatto "grattare la schiena" da alcuni colleghi, tre anni fa, con il suo disco di reinterpretazioni orchestrali
"Scratch my back"
" ha avuto la (bella) idea di coinvolgerli nella creazione di un disco complementare e a specchio (sono ora in vendita anche accoppiati) dove tocca agli ospiti aprire gli armadi e frugare i cassetti di casa sua in cerca di ciò che gli aggrada. Come spesso capita all'utopico Peter, la cosa gli è un po' sfuggita di mano: ci sono voluti tre anni (un vero contrappasso, per uno lento come lui) a raccogliere la dozzina di brani che compongono il disco, mentre all'appello non hanno risposto pezzi da novanta come David Bowie, Neil Young e Radiohead (molto si è parlato di come la sua versione di "Street spirit" sia risultata indigesta a
Thom Yorke
, che a quel punto si sarebbe defilato). Poco male, perché il cast è comunque di prim'ordine, anche se non tutti sembrano avere preso l'impegno troppo sul serio: dallo scanzonato Stephin Merritt (
Magnetic Fields
) che trasforma la drammatica "Not one of us" in una sorta di soundtrack elettronica da cartone animato o da videogioco a uno svagato
David Byrne
che, francamente, sembra aver lavorato a "I don't remember" con la mano sinistra, confezionando un techno funk un po' evanescente che non resterà nella storia come una delle sue cose migliori.
Entrambi i contributi appartengono alla schiera delle reinvenzioni "creative", categoria che nella circostanza vede primeggiare - e non è una sorpresa - Lou Reed e Brian Eno : nelle mani del primo, "Solsbury Hill" perde ogni parvenza pop per trasformarsi in un mefitico talking blues immerso in una soluzione acida di feedback; in quelle del secondo, "Mother of violence" (una vecchia e dimenticata perla da "Peter Gabriel II") diventa un rosario noise snocciolato con voce atona che rigetta il cuore melodico della canzone per amplificare il mood inquieto e nervoso del testo. Prendere o lasciare, e certo i due colossi non conoscono i timori reverenziali di Regina Spektor ("Blood of Eden") o degli Elbow ("Mercy street"), le cui riletture sono troppo ossequiose e simili agli originali per farsi ricordare e trasmettere un brivido autentico (meglio Feist , allora, che con Timber Timbre capovolge il dialogo uomo-donna di una "Don't give up" ipnotica, orientaleggiante e un po' tribale). Anche dalla "Games without frontiers" energica ma poco dinamica degli Arcade Fire sarebbe stato lecito aspettarsi di più; al contrario Randy Newman , che di Gabriel è un padre putativo riconosciuto, sembra essersi divertito non poco a smantellare la grandeur electro-funk di "Big time" per concentrarsi su un testo paradossale e sardonico adatto alla sua voce acidula e alle sue corde, mentre a
Paul Simon
bastano una dodici corde, un violino e poco altro per restituire l'intensa solennità di una "Biko" sussurrata invece che cantata a squarciagola con il pugno alzato. Alla fine, però, sono forse gli outsider a fare il lavoro migliore:
Bon Iver
, per esempio, che regala un'inedita prospettiva alt-folk-country a "Come talk to me" servendosi di un bell'arpeggio di chitarra acustica, di un banjo e di bellissime voci da cattedrale e soprattutto
Joseph Arthur
, un vecchio pupillo di Gabriel (diversi titoli del suo catalogo sono su etichetta Real World) che trasforma "Shock the monkey" in una sofferta, lacerata ballata elettrica con echi western e lancinanti distorsioni chitarristiche. Facilitato, forse, dalla conoscenza diretta di un artista il cui repertorio si conferma anche in quest'occasione materiale non facile da maneggiare: in quasi tutte le canzoni dell'inglese voce, linea melodica e tessiture sonore si fondono in un unicum inscindibile, un giocattolo difficile da rimontare una volta che si è provato a scomporlo nei suoi ingranaggi.
Entrambi i contributi appartengono alla schiera delle reinvenzioni "creative", categoria che nella circostanza vede primeggiare - e non è una sorpresa - Lou Reed e Brian Eno : nelle mani del primo, "Solsbury Hill" perde ogni parvenza pop per trasformarsi in un mefitico talking blues immerso in una soluzione acida di feedback; in quelle del secondo, "Mother of violence" (una vecchia e dimenticata perla da "Peter Gabriel II") diventa un rosario noise snocciolato con voce atona che rigetta il cuore melodico della canzone per amplificare il mood inquieto e nervoso del testo. Prendere o lasciare, e certo i due colossi non conoscono i timori reverenziali di Regina Spektor ("Blood of Eden") o degli Elbow ("Mercy street"), le cui riletture sono troppo ossequiose e simili agli originali per farsi ricordare e trasmettere un brivido autentico (meglio Feist , allora, che con Timber Timbre capovolge il dialogo uomo-donna di una "Don't give up" ipnotica, orientaleggiante e un po' tribale). Anche dalla "Games without frontiers" energica ma poco dinamica degli Arcade Fire sarebbe stato lecito aspettarsi di più; al contrario Randy Newman , che di Gabriel è un padre putativo riconosciuto, sembra essersi divertito non poco a smantellare la grandeur electro-funk di "Big time" per concentrarsi su un testo paradossale e sardonico adatto alla sua voce acidula e alle sue corde, mentre a