Dieci anni di “Squallor”, l’album più oscuro di Fabri Fibra
Dieci anni dopo la sua uscita, “Squallor” di Fabri Fibra resta uno dei dischi più oscuri, spigolosi e probabilmente incompresi del rap italiano. Pubblicato a sorpresa nel 2015 con un annuncio su Twitter, senza singoli, senza promozione e con un’estetica volutamente disturbante ed essenziale, suonava più come un avvertimento che come un ritorno: “guardate cosa siamo diventati”. Non solo il rap, ma l’Italia intera. Il progetto, da pochi giorni, e per la prima volta, è disponibile in un formato vinile da collezione. Fu anche un grande esperimento sociale: no promo, no interviste, no marketing. Fibra disse: “Ho voluto fare un disco che fosse ‘contro’? In realtà ho voluto semplicemente fare un disco rap. Il rap italiano oggi è troppo condizionato da tutta una serie di regole e di censure che lo rendono un genere innocuo. Credo che il mercato musicale attualmente sia basato su fattori che c'entrano sempre meno con la musica. ‘Squallor’ non cambia assolutamente le regole del gioco, è solo una dimostrazione che il rap può raggiungere dei risultati anche passando per vie alternative”.
Dopo il successo di “Controcultura” e “Guerra e Pace”, in tanti si aspettavano un’operazione discografica più aperta, una replica del Fibra capace di unire ironia e denuncia, facendone un mash up accattivante anche nelle hit radiofoniche. Invece “Squallor” fu un gesto di rottura, quasi un rifiuto. Il disco è lungo, cupo, disilluso. In “A volte” con Gel, che resta uno dei gioielli del progetto, Fibra si guarda intorno e non riconosce più niente: non la scena musicale, non la società, forse nemmeno se stesso. Descrive le paranoie e le difficoltà che si incontrano nel fare rap: le scelte, il successo, la confusione, la concorrenza, il disagio. È un album in cui il rapper di Senigallia smonta la propria maschera, sgonfia il personaggio mediatico che aveva creato e che rischiava di soffocarlo. La voce è più ipnotica che rabbiosa, la scrittura nervosa, disincantata, tagliente come un diario scritto di notte con il sangue. I beat, tesi e claustrofobici, amplificano la sensazione di un presente tossico, povero di verità.
Nel 2015 l’Italia era già un Paese in trasformazione: la crisi economica ancora viva, la politica riscritta a colpi di slogan, i social che iniziavano a dettare le regole del racconto di se stessi. “Squallor” intercetta questa mutazione e la restituisce in modo brutale, senza estetica né filtri. È il ritratto di un sistema che ha perso la bussola, dove la rabbia è diventata intrattenimento e la protesta un contenuto da condividere. E la scena rap, per Fibra, ne è complice. In “Il rap nel mio Paese” Fibra prende a schiaffi l’industria, inserendo anche un dissing a Fedez, simbolo di un rap patinato e da “vendere” sul mercato. “Troie in Porsche” è un montante alla scena rap, descritta come nel titolo per sottolineare la facilità a darsi via in cambio di soldi, ma in generale è un attacco all’arrivismo. In “Playboy” con Marracash si parla di “sesso come merce di scambio”, metafora di un capitalismo spietato. In “Come Vasco” c’è l’amarezza di chi tenta di raggiungere tutto, ma non si sente parte di nulla. In “E tu ci convivi” prende forma un’istantanea di una Milano avvelenata. "Pablo Escobar / Skit Squallor" non sembra offrire respiro ed è uno dei pezzi pià strani e affascinanti del progetto. In generale è un disco imperfetto, frammentato, che fa stare scomodi. Non c’è redenzione, solo uno sguardo lucido su un mondo svuotato.
Il titolo stesso, omaggio caustico agli Squallor, ma anche manifesto di uno stato d’animo, diventa una dichiarazione: lo squallore non è solo quello degli altri, ma quello che ci abita, che ci attraversa quando smettiamo di credere che si possano cambiare le cose. “Sento le sirene” riapre ferite personali tra scelte sbagliate e droga, “Alieno” scava nella solitudine, nella distanza dagli altri, mentre “Dio c’è” ha un misticismo ammaccato e sporco. “Voglio sapere” è un auspicio, ma anche un inno nichilista contro la classe politica. “Quando ero piccolo mia madre mi picchiava. Quando ero piccolo mio padre mi picchiava. Ecco perché non me ne frega un cazzo, raga”, rappa in “Non me ne frega un cazzo”, trasmettendo dolore e inquietudine. Dieci anni dopo, “Squallor” non ha perso forza, anzi. In un panorama dove il rap è diventato mainstream e la sterile provocazione una strategia di marketing, quel disco resta un corpo estraneo. È la cronaca di un Paese allo sbando, ma anche il ritratto di un uomo che ha avuto il coraggio di guardarsi ancora una volta allo specchio. In fondo, era già tutto lì: il tormento, la consapevolezza, la distanza. Oggi quell’album lo capiamo meglio. Perché lo squallore non è mai passato.