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Bandiera Gialla, il ricordo di Zaccagnini: "Cercavamo la musica"

Intervista al decano del giornalismo musicale italiano, che prese parte al programma
Bandiera Gialla, il ricordo di Zaccagnini: "Cercavamo la musica"

Annuncio: «A tutti i maggiori di anni 18, a tutti i maggiori di anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi. Chi volesse, nonostante il nostro avviso, rimanere in ascolto, lo farà a proprio rischio e pericolo». Sirena d’allarme, sigla, tutti in pista a ballare. Tutti tranne uno, Paolo Zaccagnini, poi diventato importantissimo critico musicale, nonché presenza esilarante in due film di Nanni Moretti. Lo abbiamo intervistato per i 60 anni di Bandiera Gialla

Paolo, come arrivasti a “Bandiera Gialla”?
«Io e Roberto (D’Agostino) avevamo saputo che il programma cercava figuranti e ci presentammo subito a via Asiago, insieme ad altri, molti figli di dirigenti Rai e frequentatori del Piper Club, inaugurato qualche mese prima». 

Cosa cercavate?
«La musica. Eravamo pazzi per la musica straniera, ma si sentiva poco in giro, le radio private non erano ancora nate, qualcosa arrivava da Radio Luxembourg. Facevamo la fila all’edicola di via Veneto per comprare le riviste straniere. Arbore era abbonato a “Billboard”, seguiva più il jazz, mentre io e Roberto aspettavamo l’uscita del “Melody Maker”, eravamo più ignoranti, più rock. Non capivamo niente di quello che c’era scritto. Correvamo a casa a tradurre gli articoli con il vocabolario».  

Imparavate tanto?
«Conoscevamo il gruppo malgascio Les Surfs pur non avendo idea di cosa fosse il Madagascar. Al tempo non sapevamo scrivere di musica ma sapevamo tutto di musica. Oggi mi sembra che tutti sappiano scrivere ma non sappiano così tanto di musica».

Simuliamo una puntata di “Bandiera Gialla”?
«Eravamo seduti, partiva la sigla “T Bird” di Rocky Roberts e tutti zompavano al centro. Io no, troppo timido, guardavo gli altri scatenarsi. I migliori in pista erano senz’altro Roberto e Renato, non ancora Zero, tutti lo chiamavano Renatino. Erano ballerini fenomenali. Con loro si scatenavano Patty Pravo e Loredana Bertè, che era anche capo-urlatrice, la più bella di tutte. Renato era il nostro orgoglio. Nel 1968 aprì il concerto di Jimi Hendrix al Brancaccio, danzando con i Kittens, un gruppo di ballerini. E noi fieri: “Quello è l’amico nostro!”». 

Poi votavate con le bandierine il brano preferito?
«In ogni puntata c’erano quattro gruppi di tre canzoni che venivano votate, con urli e bandierine, ma era un conteggio sommario, a occhio, e a insindacabile giudizio di Gianni Boncompagni. Non era importante chi vinceva, era l’idea straordinaria che ebbero Arbore e Boncompagni ad essere vincente». 

Perchè?
«Innanzitutto rompeva un monopolio. Si passava musica dei giovani, per i giovani, non per le famiglie. La selezione non era più secondo criteri pedagogici o promozionali, e con la scusa di essere “una zona franca di quarantena” (battevano bandiera gialla le navi di appestati dal colera ndr) e di eleggere “la canzone regina”, che poi veniva ritrasmessa finchè non veniva battuta, si poteva ascoltare più volte lo stesso brano (di norma invece un brano poteva passare nella stessa trasmissione ogni 15 giorni per evitare che i discografici corrompessero i conduttori ndr). Fino ad allora si trasmetteva solo musica italiana, che era chiusa come il resto del Paese. Non eramo più provinciali, pensavamo internazionalmente».

Il programma cambiò la discografia?
«Plasmò i gusti, il costume, mise in moto tutto un mondo. I successi di “Bandiera Gialla” venivano identificati con la fascetta gialla, così era più facile trainare le vendite nei negozi di dischi. Il mercato scoprì i giovani, fino a quel momento poco considerati. Aprì anche la strada anche ad una nuova programmazione radiofonica. Dopo arrivarono la “Hit Parade” di Lelio Luttazzi e tanti programmi incentrati sulla musica». 

Lucio Battisti aveva già scritto per altri ma cantò con la sua voce per la prima volta proprio a “Bandiera Gialla”. Eri presente?
«Io non c’ero ma Lucio era spesso in sala fra noi, sempre con la chitarra in mano. Negli intervalli ci raccontava barzellette, era di una simpatia incredibile». 

Alla fine della puntata vi regalavano i dischi?
«Sì ma io non avevo una lira, figuriamoci il giradischi. Prendevo i dischi e li regalavo a qualcuno, in cambio potevo ascoltarli a casa sua». 

Fu Arbore a inventare l’espressione “musica beat”. Ti convinse subito? 
«Sì perchè noi leggevamo i libri della beat generation, di Kerouac e Ginsberg. Un giorno io e Roberto scoprimmo che Fernanda Pivano, la traduttrice che aveva portato quegli scrittori in Italia, alloggiava all’Hotel Hassler. Ci presentammo da lei vestiti da randagi. Nacque un’amicizia. Ricordo una bellissima cena sulla terrazza di Roberto con la Pivano e Alberto Arbasino. Roberto era così: andiamo a prendere quello, andiamo a incontrare quell’altra. Gente che nemmeno ci conosceva. Una volta partimmo con la sua Seicento multipla per andare a prendere all’aeroporto Jimmy Witherspoon, un cantante blues noto solo a lui».

Dagli adulti come venivate percepiti?
«Davanti a via Asiago c’era un bel palazzo con un signore che si affacciava disgustato. Ci dava dei mascalzoni, capelloni, reietti. Fuori eravamo dei diversi, dentro eravamo diversi come tutti gli altri». 

Hai mai ritrovato quell’atmosfera?
«In nessun altro posto, a parte il Piper. Stavamo tutti insieme ma provenivamo da ceti sociali diversi, da zone lontanissime. Io da Prati, Renato dalla Montagnola, Roberto da San Lorenzo, Loredana da Trionfale. Oggi si cercano posti con qualcosa “in più”, all’epoca ci bastavamo noi e l’entusiasmo di conoscere musica nuova». 

Ricordi qualche canzone in particolare?
«”These Boots Are Made for Walkin’” di Nancy Sinatra e “Respect” di Otis Redding, dove perfino io muovevo le gambe. “Shapes Of Things” degli Yardbirds, “Just Like a Woman” di Dylan, “With A Girl Like You” dei Troggs (Zacca la canta al telefono ndr). Roberto impazziva per “In the Midnight Hour” di Wilson Pickett e “Papa’s Got A Brand New Bag” di James Brown. Ricordo uno straordinario Demetrio Stratos e i Los Bravos che con “Black Is Black” superarono per un po’ gli Stones. Tutta musica nuova di qualità, oggi invece è musica di qualità che nessuna radio passa».

Pensi che “Bandiera Gialla” aiutò anche il settore dei live?
«Probabile, e di sicuro aiutò noi! Se un disco faceva successo poi l’artista veniva a suonare in Italia. Accadde con Aretha Franklin, o con lo Spencer Davis Group, che nel 1968 venne al Piper. Per l’occasione io indossavo un paio di stivali che sembravo una gru, e la pelliccia che Liz Taylor aveva indossato mentre girava “Cleopatra” e che poi aveva regalato a mia zia, sua assistente, e che mia zia aveva regalato a mia madre. Roberto si era fatto prestare da sua madre una pelliccia da orso siberiano. Pensavamo di fare colpo sulle ragazze e invece scoppiarono tutte a ridere». 

A “Bandiera Gialla” si creavano coppie?
«Non che io ricordi, Il fatto divertente era che Arbore, timidissimo, chiedeva a noi di presentargli qualche ragazza, eppure era lui il responsabile del programma. Ma non si concludeva chissà cosa, erano altri tempi, nemmeno ci speravamo. Ci bastava conoscerci, incontrare altri simili a noi e condividere». 

Cosa ti resta di quell’esperienza?
«Il respiro della libertà, la spensieratezza. Venivo da un periodo durissimo, mia madre puliva le scale, mio padre era morto. La musica, Bandiera Gialla, il Piper, mi hanno permesso di dimenticare ogni dolore, di trovare una comunità. A ripensarci mi viene da piangere. Non per nostalgia, non per me, non per noi che l’abbiamo vissuto, ma per chi oggi non lo vive e pensa di assistere a cose straordinarie. Siamo stati fortunati».

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