PTN: “Più che pensare ai numeri serve trovare la propria cifra”
“Io volevo solo fare l’artista, non avere mille burnout / E chi pensava che ci vuole un terapista, pure per curare i soldout”, canta Riccardo Zanotti in "Burnout", canzone di “Hello world”, uscito a fine 2024. Nel frattempo la band ha fatto un altro tour negli stadi e la musica live è diventata un tema di discussione che va oltre gli addetti ai lavori: è stata Selvaggia Lucarelli a portare all'attenzione generale la questione, delegando poi la spiegazione del fenomeno dei Pinguini Tattici Nucleari al collega Michele Monina.
I PTN sono gli “underdog” del sistema italiano? Il loro tour del 2023 fu effettivamente una sorpresa per molti: inizialmente era previsto un solo San Siro, le richieste li portarono a fare 11 date tra stadi e arene. Ma lo stesso non si può più dire oggi, anche se i loro numeri continuano ad attirare meno l’attenzione di quelli di altri colleghi.
Non è solo una questione di numeri – ma di cifra (stilistica): questo ci spiega Riccardo Zanotti, con cui abbiamo avuto una lunga conversazione per farci raccontare come funzionano i PTN, , come si organizzano per prendere le loro scelte, come si relazionano con i colleghi: “Io penso che quella dei concerti non sia una guerra in cui si fa la gara al coriandolo più grosso”, dice rispondendo a una battuta di Cesare Cremonini – spiegando anche come mai hanno scelto di non fare più date, pur avendone la possibilità e la richiesta.
Partiamo dai numeri recenti dei Pinguini: 420 mila biglietti venduti, presenze multiple di singoli e album nelle classifiche di metà anno. Cosa è cambiato dal vostro tour del 2023 ad oggi e da “Fake News” a “Hello World”?
In termini qualitativi, più vai avanti più è difficile: è la regola aurea in generale di qualsiasi musicista. Devi riscoprire le sonorità, i modi di arrangiare, le sequenze armoniche perché a un certo punto risultano un po’ stucchevoli: le hai già utilizzate, devi sempre trovare delle nuove formule ma allo stesso tempo senza perdere la tua cifra stilistica. Gli ascoltatori sono abituati a una cosa e devi giocare sempre a destabilizzarli ma anche sull’essere comprensibile e “relatable”.
In termini quantitativi, invece?
Noi viviamo in una sorta di limbo che ci siamo autodisegnati attorno, un po’ come quello che nella pubblicità si disegnava la banca intorno a lui con un cerchio sulla sabbia. Abbiamo un confine entro il quale i numeri non entrano, ci sono solo le persone. Poi chiaramente sono importantissimi anche i numeri, ma poi sono come gli ospiti e come il pesce: dopo qualche giorno puzzano sempre. Si rivoltano contro di te. Cerchiamo di vivere in maniera tranquilla e pacifica senza pensare troppo alla quantità ma più pensando alla qualità.
Fare un secondo tour negli stadi vi ha messi in una condizione diversa di esperienza, progettazione e idee?
All’apertura del secondo tour eravamo comunque lì a chiederci se aveva senso fare questa cosa, come sarebbe andata: la storia dei nostri stadi è ancora giovane, è fatta di due tour, non è quella di Vasco o Ligabue. Sei sempre un po’ insicuro.
Però appena aperte le vendite abbiamo avuto già da subito il sentore che sarebbe andata bene. Ci siamo detti: potremmo fare altre date. Ma abbiamo preferito essere un po’ più conservativi.
Bisogna anche stare attenti a non saturarsi e a non saturare: è un periodo in cui è finita la spinta del post-Covid, la gente ha ancora voglia di uscire a vedere dei concerti però seleziona con molta cura tra chi fa live di qualità. E ce ne sono in Italia, grazie al cielo: penso a Cremonini, penso a Ultimo, a Vasco ovviamente. Non abbiamo strafatto.
Qual è il processo decisionale e come vi organizzate, come band e come struttura, rispetto a queste decisioni?
Ci sono più nuclei, perché si parla sempre di un gruppo di noi sei, che siamo una parte del tutto. Poi c’è un team dietro. Il nostro manager Gianrico Cuppari si occupa di numeri, cifre e prospetti. Con lui ci confrontiamo su queste parti, e con il booking, che avendo a disposizione una mole di dati gigantesca, ha il sentore di quello che è il mercato. Cerchiamo di creare un clima molto rilassato e molto tranquillo in cui tutti possono dire la propria, dall’ultima persona che si è unita a noi quest’anno: secondo me questa cosa ci salva e ci preserva da un sacco di problematiche.
Avete lo stesso management dagli esordi, lavorate con Sony per la parte discografica da tempo. L’unico cambiamento recente è stato il passaggio con Magellano due anni fa per i concerti. Quanto conta creare una catena di fiducia?
La fiducia secondo me non è per forza di cose la qualità universale. Attenzione, è fondamentale, ma prima ci vuole la bravura, che poi determina la fiducia. Poi certo nel nostro percorso ci sono stati dei casi in cui abbiamo sbagliato il giudizio, come nel percorso di tutti. Il primo stadio - all’inizio pensavamo ad un solo San Siro - e poi il conseguente tour: lì ci è voluto un bel coraggio, dovevamo trovare qualcuno che avesse fiducia in noi, una compagnia di persone che erano disposte a commettere in quel momento un qualcosa di molto fuori dagli schemi, e questo è stato Magellano. Negli ultimi due-tre anni si sono visti più concerti in questa dimensione, ma quando è uscita la notizia dei Pinguini negli stadi, tanti hanno anche storto il naso chiedendosi come fosse possibile.
Sul tema dei concerti avevi già scritto una canzone, “Burnout”. Cosa ne pensi, ora che se ne parla non più solo tra addetti ai lavori?
Nel 2022 ho scritto “Non sono cool” che si chiudeva dicendo “Ma San Pietro non apre a un San Siro sold out”. Non è che i grandi numeri ti possono consentire poi di raggiungere un fantomatico paradiso dei musicisti…
È facile dirlo quando i numeri sono dalla tua, ma bisogna avere anche il coraggio di dire delle banalità: ragazzi, queste cose contano fino a un certo punto. Lo dico soprattutto parlando ad altri artisti, perché poi al pubblico queste cose arrivano fino a un certo punto.
Noi abbiamo uno studio qui a Milano sud e tutti i giorni andiamo in questo bar dove c’è un ragazzo che vuole fare il cantante ma sta lavorando lì per sostentarsi. Io l’ho fatto per anni, io so benissimo cosa vuol dire quella roba lì… Ecco, è soprattutto a lui che dico: fottitene un po’ di più di questi numeri di Spotify. Prima dei numeri è ancora più importante trovare la propria cifra.
Qual è la vostra cifra, allora?
Quella canzone è un manifesto in cui dichiaravo che non stavamo cercando la coolness, non cercavamo l’ascolto facile, non volevamo far parte di una sottocultura come l’indie pop, ma seguivamo idee diverse, quelle di una band. Non penso che siamo mai stati visti come un progetto estremamente trasgressivo, ci siamo trovati la nostra strada…
Però poi i numeri si raccontano, eccome. Cesare Cremonini, presentando il suo tour, ha fatto una battuta indiretta su di voi dicendo che raccontare i numeri dei chili di coriandoli si può anche evitare…
Con Cesare ci sentiamo, non c’è nessuna polemica, era più uno spunto che mi ha fatto ridere. Io sono super fan di queste battute fra artisti: è un po’ di ironia, mette un po’ di pepe nel rapporto…
Cesare è una persona che ha da insegnare tantissimo: ha raccontato il suo percorso ricordando che a un certo punto, a inizio 2000, non andava a vederlo nessuno, ma poi si è ritirato su. La cosa più assurda per me è che lo ha fatto anche con delle canzoni che appartengono a quel periodo: le aveva già prima che le orecchie della gente fossero pronte ad ascoltarle.
Non c’è competizione tra artisti, quindi?
Io penso che quella dei concerti non sia una guerra in cui si fa la gara al coriandolo più grosso, ma debba essere un momento di gioia, di condivisione. Noi abbiamo un’idea diversa di quello che deve essere un concerto rispetto a Cremonini, rispetto anche a Vasco, rispetto a tanti altri che adesso hanno dei tour negli stadi.
In cosa è diversa la vostra idea di un concerto negli stadi?
Guarda, per una ragione molto semplice ed intrinseca: siamo una band. Questi altri grandi artisti sono dei solisti: quando vai a vedere Cesare vuoi vedere Cesare, perché è un frontman, quel palco lo regge da solo.
Io dico con grandissima tranquillità: noi da soli non lo reggeremmo il palco, siamo forti perché ci diamo manforte l’uno con l’altro. Le band sono una specie in via d’estinzione, Vasco è diversissimo da Cesare, così come Ligabue è diversissimo da loro due, e quindi ognuno ha la sua particolarità.
Tu da spettatore andavi ai concerti negli stadi o ai concerti molto grossi? Ti piacciono ancora?
Sì, li vado a vedere, mi piacciono molto e io non so neanche dirti a quanti concerti sono andato nella mia vita perché ho perso totalmente il conto. A un certo punto tenevo i biglietti come talismano in una sorta di piccola cassettina e poi ho smesso perché non li conteneva più.
Però mi piace tanto andare in posti piccoli. Mi piacciono quelli grossi, ma vado più spesso a concerti di band piccole o artisti piccoli, mi piace anche scoprire roba nuova. E lì magari oggi è più difficile perché ti fermano, ti chiedono le foto, talvolta può essere anche imbarazzante perché ti ritrovi in mezzo a una confusione grossa, non riesci a goderti lo spettacolo. Però devo dire che i miei localini in cui sono completamente inosservato ce li ho e ci vado molto spesso…
Tre anni fa tu, Gianrico Cuppari e Nina Selvini avete aperto Nigiri, con cui producete artisti ed artiste giovani: come sta andando questo progetto?
Per me è divertentissimo ed è soprattutto giusto: un sacco di nuove tendenze, di nuovi suoni, di nuove influenze, le intercetto anche grazie a questa gente giovane: hanno 20 anni, io inizio ad averne 30 e quindi inizio di fatto ad essere escluso da certe tendenze. Banalmente perché non sono sempre aggiornato su tutto…
A livello creativo quindi è una fonte di ispirazione, ma a livello imprenditoriale funziona?
Funziona nella misura in cui lavori su nuovi artisti senza avere dietro grandi budget. Non bisogna pensare che ci si guadagnino cifre spropositate, non è quello l’intento con cui lo facciamo. Poi, se un giorno qualcuno avrà un enorme successo, glielo auguriamo, e ci mancherebbe. Però anche solo riuscire a farne un mestiere è già un risultato. I Pinguini si auguravano quello fino al 2018, poi le cose sono andate via via sempre migliorando. Io penso che l’obiettivo massimo sia quello di vivere di musica.
Vi sentite ancora degli “underdog”?
Dipende da cosa prendi in considerazione. Se consideri solo il presente, quello è sempre un po’ sfigato nella musica. Nella musica e nella discografia si guarda al passato, al catalogo, e al futuro, alle nuove tendenze.
Noi nel presente abbiamo un posto in qualche modo importante. Ma per quanto riguarda il passato è troppo presto: abbiamo iniziato insieme nel 2010, ma di fatto questa formazione è arrivata nel 2013-14. Per il futuro bisogna stare a vedere: non abbiamo ancora dimostrato di essere delle persone che possono stare nella storia della musica italiana, ne siamo ancora molto lontani.
Le canzoni devono sopravvivere ai decenni, non alle classifiche semestrali della FIMI, come hanno fatto quelle di artisti come Max Pezzali, Vasco e tutti quelli che ho citato prima. Il nostro obiettivo in questo momento è dimostrare di riuscire a restare in piedi: tutti hanno avuto alti e bassi.
Cosa succede ora ai Pinguini?
Per le prossime mosse, non ci abbiamo ancora pensato. Sicuramente vogliamo fare qualcosa che sia un prossimo passo, un next step, qualcosa di diverso e c’è da studiarlo bene.
Però c’è una parola che è entrata di prepotenza ultimamente nei nostri camerini, ed è “viaggio”. Quello fatto in Islanda ci ha portato bene: viaggiare insieme ci può dare tanto. Elio ora è in Madagascar: ogni tanto ti fermano, a volte degli italiani, e ti chiedono dove sono gli altri, come se dovessimo essere inscindibili l’uno dall’altro – cosa che ci fa sempre ridere. Però adesso vogliamo provare davvero a fare dei viaggi in giro per il mondo e vedere che cosa ci danno.