Achille Lauro: "Non inseguo più i numeri, penso alle persone"

Il nuovo capitolo dell’Achilleide ha per protagonista semplicemente "Lauro". Più spoglio, intimo, sentimentale, sulla scia dei due singoli “Amore disperato” e “Incoscienti giovani”. “Comuni mortali” esce il 18 aprile e dentro non c’è irruenza o provocazione ma gratitudine verso chi non c’è più o c’è sempre stato, riflessioni su chi non c’è mai stato, su chi è stato arrestato, sul fatto che il crimine non è una scelta. Ha un incedere quasi epistolare. Potrebbero essere lettere o cartoline, sono dediche alla sua gente, alla sua città, quasi tutte adatte al sing-along nella doppietta sold out al Circo Massimo il 29 giugno e 1 luglio. Che è solo uno dei suoi prossimi passi. C’è in programma forse un disco urban con i ragazzi smarriti della sua Fondazione, forse un brano per Mina («Non gliel’ho mandato ancora ma ho pronta una cosa bella per lei»), forse un’altra edizione di X Factor. Di sicuro, per adesso, ci sono questi inediti che usano la vita come sceneggiatura e musicalmente rimpastano il passato (da Venditti ai Pixies) ma filtrato in modo personale e contenenti qualcosa che tocca le corde di tutti. Perché prima ancora che una parabola musicale, quella di Lauro è una parabola sociale. Ha qualcosa di cristologico: martirio, ingiustizia, tenacia, riscatto. E quindi: speranza. In circa duemila ieri sera si sono presentati allo show a sorpresa, sotto la pioggia. Sarebbe stato bello portarli sotto i palazzi di una periferia invece che ai piedi di Trinità dei Monti, così sontuosa, ma tutto sommato anche questo è simbolico: essere arrivato da un contesto marcio a dominare piazza di Spagna, avere accanto il sindaco Gualtieri, stonare senza che questo sia rilevante, perché la credibilità conta di più, cantare “Notte prima degli esami” insieme ad una nuova generazione. Prima dell’esibizione, in total black e con occhiali scuri, Lauro ha incontrato la stampa per presentare il disco.
Lauro, partiamo dal titolo “Comuni mortali”. Come nasce?
«È l’espressione che racchiude la nostra fragilità. Siamo così umani, in fondo così uguali. Il disco analizza e esplora l'amore in tutte le tue forme, perché l’amore è l'unica traccia che uno lascia davvero nel suo passaggio sulla Terra. Il concept è simboleggiato da una farfalla. Ho scoperto che in molte culture la farfalla rappresenta la visita degli spiriti che tornano a trovare i vivi. Mi piaceva questa contrapposizione tra la vita e la morte, il ciclo della vita da bozzolo a qualcosa di unico, che può durare anche un solo giorno».
Musicalmente che passo è del tuo percorso?
«È un disco che parla con una consapevolezza diversa. Oggi guardo la periferia con altri occhi. L’ho scritto tra Los Angeles e New York, mi sono osservato dall’esterno, sono uscito da logiche di mercato, che a volte sono deleterie per gli artisti. È un disco pop, ma non nel senso sminuente, non di plastica o di poco contenuto. C’è dentro molta verità, molta sofferenza. Non l’ho pensato per le radio, non è paraculo. Non ho interesse per i risultati ma per le persone che veramente mi seguono e aspettano i miei live. È questo che ora mi fa lavorare in modo diverso. Non sto più a rincorrere il gioco dei numeri o dell’estate. Mi importa solamente di lasciare qualcosa di grande nelle persone. Il bello della musica è proprio questo, no?».
Quale?
«Alla fine cos’è una canzone se non un sentimento condiviso? Quando scrivi una canzone, poi diventa degli altri, diventa il loro ricordo. Fra venti anni non si ricorderanno quell’idiota in tutina a Sanremo ma il momento della loro vita caratterizzato da quel brano. È successo anche a me, infatti il disco si rifa al cantautorato con il quale sono cresciuto. È un po’ la chiave, questa rilettura a modo mio dei classici: Venditti, De Gregori (di cui cita “Sempre e per sempre” ndr), Dalla, Califano. Poi Mina, Mia Martini. Per anni ho mescolato suoni, cambiato, provato strade. Questo disco invece ha un’identita a fuoco. Sono io, è questo il mio posto, è questa la cosa che mi porterà a restare».
È un momento d’oro per te?
«Un periodo bellissimo. Mi sento nel posto giusto, nel momento giusto. Non faccio solo ciò che amo fare, ma ho una forte connessione con il pubblico e abbraccio tante generazioni. Il mio percorso è stato fuori controllo e c’è chi dice che ho provato a far saltare in aria la mia carriera in ogni disco, ma io sono sempre stato coerente con chi ero in quel momento. I semi delle canzoni di oggi si trovano anche nei miei vecchi brani, nei miei dischi più urban, in canzoni come “Barabba” e “La bella e la bestia”. C’era il germe anche in un brano come “16 marzo”. I miei amici lo ascoltavano e dicevano: “Sembra la musica di Torvaianica”. Una metafora per quelle ballate sporche, retrò, che ascoltavamo in macchina andando al mare».
“Barabba” è al terzo capitolo, dopo il mixtape del 2012 e la ripresa nel 2016. Un modo per tenerti legato alle radici?
«È storia vera di un amico che ho perso. Io non mitizzo nulla. Non parlo più di ragazzini che vivono sulla panchina, ma di gente ormai adulta, che ha seri problemi e da quel giro di dipendenza e depressione non esce. Alcuni ragazzi non hanno più un posto nel mondo, non sanno parlare, non sanno amare, non possono più essere amati, non si curano più, non sono nulla. Bisogna ripartire dall'educazione scolastica, sentimentale, finanziaria, famigliare. Trovo assurdo che si dica: “Se non studi, vai a lavorare”. Si ha diritto ad entrambi. Io sono fortunato perché ho scoperto le mie passioni. Ho una specie di maledizione».
In che senso?
«Ho l'ossessione dell'ambizione, per me è un tormento fottuto. Non esiste pace, non esiste giorno in cui mi goda pienamente ciò che sto facendo. Sono sempre alla ricerca, sempre insoddisfatto, sempre a caccia della perfezione che non esiste o che non raggiungerò mai. Forse come Giorgio Armani, un giorno mi guarderò indietro e dirò: “Mi sono scordato di pensare a me stesso”».
Anche in amore?
«Sono stato fidanzato per tanti anni, so cosa vuol dire avere una relazione lunga, ma ora sono concentrato sulla mia libertà, che vale troppo. So affrontare la vita da solo, e quando deciderò di condividere la vita con qualcun altro, dovrà valerne la pena, costruendo molto insieme. Non è che ti fidanzi e fai un figlio solo perchè hai 35 anni. Deve essere conseguenza di qualcosa di grande».
Dedichi la toccante “Cristina” a tua madre. Come mai adesso?
«Era il momento giusto ed è uscito in dieci minuti, proprio perché ora vedo con altri occhi. I genitori da piccoli ci sembrano adulti, ma poi, avvicinandoci alla loro età, ci rendiamo conto che erano solo ragazzini che crescevano i loro bambini. A me piace costruire spettacoli dirompenti ma nella vita sono timido e riservato. Sono cresciuto in modo strano. Non mi sono alzato un giorno annunciando ai miei “voglio fare il cantante”. Ho vissuto da solo, senza genitori, e hanno scoperto cosa facevo da un giornale. Per lo stesso motivo, mia madre ancora non ha ascoltato la canzone, che reputo un diamantino nella mia carriera».
Come ti stai preprando al Circo Massimo?
«È un traguardo ma lo vivo come un punto di partenza. Ok, ci sarà la messa in scena e l’emozione, ma vorrei fosse un vero concerto. Mi concentrerò a lavorare tanto sugli arrangiamenti, sull'organico. Sto pensando solo a quello, non ad eventuali ospiti».
Ci sarà una terza data?
«La stiamo tenendo in riserva, se tutto va bene annunceremo qualcosa di ancora più grande. Poi ci saranno i palazzetti, un live come lo sogno, fatto di canzoni. Ormai ho un repertorio importante, non sono più percepito solo come personaggio, un fuoco di paglia, un intrattenitore. Ed è giusto che sia così, perchè io non vivo la musica come divertimento. Non è una scemenza, è il mio modo per esistere».
C’è in ballo anche un film?
«Dopo Sanremo il mondo del cinema si è mobilitato. Sto lavorando con un grossissimo produttore ma non nel ruolo di attore. Metterà le mie idee a terra. Stranamente non sono un uomo che sta davanti la telecamera, sono più un uomo di pensiero».
Cosa ti sei riportato invece dall’esperienza all’estero?
«”Dannata San Francisco” è stato scritta nel deserto, eravamo dentro la canzone, e “Walk Of Fame” ha un sound un po’ Red Hot, internazionale, però in generale a Los Angeles e a New York mi succede questo: da una parte sono contento che non mi riconoscano, riesco a fare la spesa al supermercato, faccio la fila nei locali. Una normalità bellissima. Dall’altra parte vedo arene gigantesche, il Madison Square Garden, e penso che mi piacerebbe arrivare sul mercato internazionale».
Vorresti fare un disco in inglese?
«Sì ma portando la nostra tradizione fuori. Ho incontrato tanta gente, team di artisti enormi come Drake e Kanye West, e ho scoperto che sono rimasti basiti da un brano tipo “Rolls Royce”, da quelle sonorità lì, maleducate. Sono pieno di produttori che mi scrivono e pensano che io sia il cavallo pazzo europeo. Non solo: giorni fa mi ha contattato Yungblud. Mi ha chiesto di vederci a Milano, dice che la mia roba è devastante e che le sue amiche a Londra mi ascoltano. Si è creata una connessione e potrebbe succedere qualcosa, è vicino come mondo».
Roma comunque resta il tuo centro. Le dedichi “amoR”, in uscita venerdì, con un video tutto capitolino.
«È diversa dalle mie ballad, che sono sempre molto struggenti e parlano di amori finiti. Invece spero che questa se la possano dedicare i grandi amori appena iniziati. Roma è il mio filo conduttore: amica, amante, nemica, nei suoi vicoli vive una tradizione che altrove non esiste più. Io non faccio altro che rubare dalla realtà. Penso alla mia musica come se fossi un documentarista, tento di fermare le immagini. Sono cresciuto fra la gente, fra il popolo, in strada, perché dove esiste la realtà, esistono le grandi cose. Sono grato alla mia vita spericolata, che è stata anche pericolosa. Conosco il lato di chi non ha niente e di chi vive sognando, che è un grande lusso».
Per questo stai lavorando alla fondazione Ragazzi-madre. Di cosa si tratta?
«Ai miei esordi, da disgraziato e disperato, parlavo di questi ragazzi che si prendono cura gli uni degli altri. Finora per me era impegno sociale, con donazioni, presenza in ospedale, nelle comunità, in case-famiglia. Il concetto si è evoluto e sta diventando solido, con una squadra operativa, dentro queste realtà tremende e invisibili. Io ho costrutito questa mia casa mattone per mattone, non è arrivato di botto, e non è arrivato con Sanremo. La fondazione nasce per gratitudine. Tanto è entrato e tanto deve uscire da qui. È il mio modo per restituire. E adesso, per favore, possiamo avere cento tequile?».