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Quando Avicii con “Levels” imbrogliò i discografici

Genio, ma anche sregolatezza: un aneddoto sul dj svedese dei record, tratto dal film Netflix.
Quando Avicii con “Levels” imbrogliò i discografici

Genio, ma anche sregolatezza. Avicii era questo. Un musicista dotato di un enorme talento compositivo: «Musica senza tempo. È questo, quello che sto cercando di fare. Per me la musica è sempre stata una questione di melodie. Sono melodie che risalgono a centinaia di anni fa, che tornano in forme e modalità diverse», raccontava il dj svedese, scomparso prematuramente nel 2018 a soli 28 anni (il corpo senza vita venne ritrovato in una stanza d’albergo in Oman, dove era in vacanza insieme ad alcuni amici - l’autopsia sancì che la morte non fosse da ritenersi sospetta e il sito statunitense di gossip Tmz rivelò che il musicista si suicidò), in una vecchia intervista rilasciata agli esordi della sua straordinaria carriera. Ma nonostante si fosse ritrovato immerso nelle acque del music business quasi inconsapevolmente, quando nel 2010 “Bromance” gli scoppiò tra le mani e lo portò ad esibirsi dietro le consolle dei più grossi festival internazionali, Tim Bergling - questo il suo vero nome - imparò sin da subito a nuotare tra gli squali. E a sviluppare le abilità necessarie per sopravvivere. Nel documentario Netflix appena uscito sulla piattaforma di streaming, “Avicii - I’m Tim”, voluto dalla famiglia (che in seguito alla sua morte ha istituito una fondazione a lui intitolata con lo scopo di fornire ai giovani assistenza psicologica e combattere i suicidi), c’è un aneddoto divertente legato alla genesi e al successo di una delle più grandi hit firmate dal dj svedese, quella “Levels” che oggi su Spotify conta oltre 1 miliardo di streams, risuona negli stadi di tutto il mondo e continua a far scatenare milioni di ragazze e ragazzi sotto ai palchi dei grandi festival. Un successo clamoroso, nato però da un vero e proprio bluff.

Il bluff è quello che Avicii rifilò al discografico della Universal Per Sundin, vecchia volpe della discografia scandinava già dietro ai successi degli Swedish House Mafia e quelli legati al catalogo degli ABBA (un illuminato: fu il primo dirigente di una casa discografica ad aprire al dialogo con Spotify), che aveva cominciato a monitorare con attenzione il dj svedese. A raccontare la vicenda è lo stesso Sundin, in una scena del documentario di Henrick Burman che ripercorre la parabola umana e artistica del compianto dj partito da Stoccolma alla conquista dei palchi di tutto il mondo. Avicii aveva già collezionato una manciata di successi, tra cui la stessa “Bromance”, quando nel 2011 compose “Levels”. Campionò e rielaborò in chiave EDM una vecchia canzone rhythm and blues incisa cinquant’anni prima, nel 1962, da Etta James, intitolata “Something’s got a hold on me”, che l’anno precedente Christina Aguilera aveva reinterpretato nel film “Burlesque”.

Un’operazione coraggiosa e interessante, nella quale Avicii e il suo manager di allora, Ash Pournouri, credevano moltissimo. E nella quale credette moltissimo anche Sundin, quando ascoltò per la prima volta il provino del brano: «Dissi ad Ash: “Quel pezzo dev’essere mio”. Poi lui mi ha richiamato e mi ha detto: “Il fatto è che lo vuole anche la Virgin ed è disposta a pagare 500 mila euro per la canzone”. Risposi: “Che cosa? 500 mila euro?”. Io per “Bromance” ne avevo spesi 5 mila. E lui: “Capisco, ma ci abbiamo lavorato molto e dietro c’è una lunga programmazione”. Riagganciai. Ma ormai avevo già iniziato a proporre Avicii ai miei contatti alla Universal, così ho dovuto richiamarli per dirgli che non l’avremmo preso, perché quel prezzo era esagerato. Ma loro mi dissero: “Inventati qualcosa, non possiamo assolutamente perdere una hit come quella”. Così ho richiamato Ash qualche giorno dopo: “Possiamo trovare un accordo?”. E lui: “Certo, ma il prezzo è 500 mila”. Glieli diedi». Ma le cose non stavano esattamente così.

Avicii, infatti, non aveva ricevuto alcuna offerta da parte della Virgin. Sundin lo scoprì solo quando le carte erano state già firmate e Avicii e il suo manager avevano già intascatio i 500 mila euro dell’accordo. «Gli chiesi: “Perché l’hai fatto? Non avevi offerte”. E lui: “Dovevo far salire il prezzo. Era il prezzo che volevamo. Non credo di aver danneggiato la tua carriera”». Aveva ragione lui, perché nel giro di sei settimane, un mese e mezzo, la Universal recuperò grazie alle vendite e al successo di “Levels” l’intera somma spesa.

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