Centomilacarie: “L’Italia è vecchia: tifo per la mia generazione”
Segnatevi questo nome: Centomilacarie. E fidatevi se vi diciamo che sarà una delle rivelazioni della musica italiana dei prossimi mesi. Di lui qui su Rockol avevamo parlato già un anno fa, quando Simone Colamussi - questo il vero nome del cantautore, classe 2004, nato a Varese: su quello d’arte dice che gli “piaceva l’idea di avere un nome che quasi desse fastidio, quasi cacofonico, ma che non ti dimentichi” - aveva pubblicato per Maciste Dischi, la stessa etichetta che ha reso fenomeni pop Gazzelle e Fulminacci, il suo Ep d’esordio “Neanche anch’io”. Dentro il suo universo convivono cantautorato, uno spirito rock’n’roll e un’attitudine che a qualcuno potrebbe ricordare quella del primissimo Blanco, pur avendo immaginari e modi di scrivere differenti. Non è un caso, forse, che Mace lo abbia scelto come una delle due voci del suo nuovo singolo “Non mi riconosco”, accanto a Salmo: tre anni fa a cantare insieme al rapper sardo “La canzone nostra”, che fece vincere al produttore milanese sei Dischi di platino, c’era proprio Blanco. “Con questa canzone volevo arrivare alla gente, più che essere trasmesso dalle radio: volevo che le persone ascoltassero davvero quello che dico, oggi che purtroppo si fa caso più ad altro che alle parole delle canzoni”, dice lui. Sfrontato, spudorato, ma con la testa sulle spalle: parlarci è una (piacevole) sorpresa.
“Mia madre bussa alla porta della mia camera e mi trova morto”, canti. E ancora: “Non ho più tempo, non mi voglio salvare”. Da dove nasce tutto questo malessere?
“Non è mio, non mi appartiene. Mi sono immedesimato in uno dei tanti ragazzi della mia generazione: la nostra felicità ormai si trova solo negli schermi dei cellulari, nell’esigenza di essere appagati così. Alludo anche al suicidio, quando canto: ‘Mi manca il vecchio me’. È una tematica presente, ahimè, nella società di oggi. Storie di questo tipo le ho toccate con mano: conosco la sensazione di chi pensa che la propria vita sia già passata e che debba terminare”.
Che vissuto è quello di Centomilacarie?
“Sono un provinciale. Vengo da una famiglia normalissima. Ho sempre avuto la passione per la musica, sin da quando mio fratello, più grande di me di dieci anni, giocava a videogiochi come Final Fantasy e io rimanevo ore ad ascoltare le musiche della colonna sonora. Da bambino ho preso lezioni di violino, poi durante il lockdown ho imparato da autodidatta a strimpellare chitarra e pianoforte. Finché non ho scoperto che sopra quelle melodie potevo cantare delle parole. La folgorazione è arrivata grazie a XXXTentacion: la sua scomparsa è stata una grande perdita per il mondo dell’arte”.
Qual è stata la molla che ti ha spinto a scrivere le prime rime?
“L’esigenza di raccontare il contesto in cui vivevo, in provincia. Con gli amici registravamo tra una birra e l’altra in auto, con i finestrini chiusi, per non far rumore: sennò i nostri genitori ci cazziavano. Usavamo microfoni rotti. Quelle registrazioni non avevano una destinazione: lo facevo per me, per noi”.
Il primo a credere in te?
“Me stesso”.
Il secondo, allora?
“I miei amici”.
La svolta quando è arrivata?
“Quale svolta? Non è successo ancora niente. Firmare per un’etichetta discografica non è una svolta. Non lo è aprire i concerti di Fulminacci, Chiello o Gazzelle. E non lo è neppure pubblicare un pezzo con due giganti come Salmo e Mace, anche se è un'esperienza incredibile poterlo fare”.
“Ho scoperto centomilacarie quasi per caso e la sua voce mi è arrivata subito come un pugno nello stomaco”, ha detto Mace. Altri al posto tuo si sentirebbero già arrivati, lo sai?
“Ma non ha senso. Arrivati dove? Io non ho combinato ancora niente. Vivo ancora a Castellanza, insieme a mio padre. Ho finito da poco la scuola. Faccio il barista a Malpensa e per arrotondare lavoro pure in una gelateria. Servono soldi: altrimenti come me la vado a mangiare una pizza con gli amici, il sabato sera?”.
Per caso hai provato a partecipare a qualche talent?
“No. Non mi è mai interessata quella strada. Quelli sono spettacoli televisivi, non è vera e propria musica. Sono sicuro che se mi fossi presentato lì con ‘Non mi riconosco’ neanche mi avrebbero preso: scelgono canzoni pensate per funzionare in format precisi. Non fa per me”.
Come influiscono la disgrafia e la dislessia sul tuo modo di fare musica?
“Ogni canzone che scrivo è una mezza guerra: tra il fatto che scrivo male e che poi leggo male il testo, non fila sempre tutto liscio”.
Qual è il tuo obiettivo?
“Vorrei portare l’America in Italia”.
Cosa intendi per “l’America in Italia”?
“Visioni fighe, innovazione, libertà. L’Italia è vecchia, affezionata al passato”.
All’ultimo Festival di Sanremo c’erano al primo posto una ragazza di 22 anni, Angelina Mango, e al secondo un ragazzo di 23, Geolier.
“Stimo tutti quelli della mia generazione, che si sono rimboccati le maniche per fare grandi cose. Ma guai a pensare che il lavoro sia concluso: la rivoluzione è ancora in corso”.