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I Finley sono sopravvissuti. E ora sognano di (ri)diventare star

Le prime demo, Cecchetto, Trl, Sanremo. L’oblio. Ora la band torna, insieme a Benj. L’intervista.
I Finley sono sopravvissuti. E ora sognano di (ri)diventare star
Credits: Simone Paccini

La fine di quell’incantesimo che in una manciata di anni li portò dal palco del Circolone, locale dell’hinterland milanese che fu per anni il cuore pulsante della scena lombarda, a conquistare Dischi d’oro e di platino, vendere oltre 300 mila copie tra album e singoli (dieci anni prima dello streaming), infilare un sold out dietro l’altro e partecipare pure al Festival di Sanremo, i Finley se la ricordano bene: “Per Claudio Cecchetto dovevamo essere più pop: ci vedeva come i Jonas Brothers. Noi, invece, volevamo dimostrare che c’era altro: dai concerti fatti nei centri sociali e sui palchi dei festival punk a produzioni più rock”. Era il 2012. Il leggendario talent scout aveva preso Marco Pedretti - per i fan Pedro - e soci sotto la sua ala protettiva sette anni prima, mettendo al servizio di quel gruppo di scappati di casa partito dagli scantinati di Legnano, cantando in inglese e scimmiottando con le sue demo il sound dei gruppi di punta del punk californiano, le sue intuizioni. Si erano rivelate vincenti: “Tutto è possibile”, “Diventerai una star”, il duetto con Mondo Marcio su “Dentro alla scatola”, “Fumo e cenere”, “Adrenalina”, “Ricordi”. Raccontando di amori, ragazzate, sogni e delusioni i Finley erano diventati delle icone della generazione Trl, il programma simbolo di Mtv negli Anni Duemila: prima che gli idoli dei talent monopolizzassero il mercato, di quella generazione il cantante Marco Pedretti, il chitarrista Carmine Ruggiero, il bassista Ivan Moro (subentrato a Stefano Mantegazza) e il batterista Danilo Calvio, per le fan rispettivamente Pedro, Ka, Ivan e Dani, avevano interpretato alla perfezione i gusti. Arrivati a quel punto della loro carriera, però, dalla musica cercavano altre sensazioni. Dieci - anzi, undici - anni dopo, i Finley sono ancora in giro. Non sono diventati star, verrebbe da dire citando la loro hit più celebre, ma sono (ultra)trentenni comunque risolti e appagati. Il frontman nel 2016 ha sposato la storica fidanzata Elisa, dopo undici anni, lui che ai tempi di “Fumo e cenere” ha fatto battere il cuore a migliaia di ragazzine: all’inizio dell’anno è diventato padre per la seconda volta. Dal 2018 i Findley conducono un programma tutto loro su R101, “I trafficanti di R101”. E continuano a collezionare serate e concerti in tutta Italia, prendendosi le loro soddisfazioni. Sono loro stessi a fare autoironia sul loro percorso in “Politically correct”, il singolo che hanno appena pubblicato insieme a Benji, ex socio di Fede: “Che importa anche se non diventerò una star”, cantano.

Come è possibile che dopo essere stati scottati da un successo enorme non siate finiti sul lettino di uno psicanalista o in qualche clinica di rehab?

“E chi ti dice che io non ci sia stato (ride)?”.



Dallo psicanalista o in riabilitazione?

“Da entrambi. Scherzi a parte: può sembrare banale e retorico, ma conta tanto il contesto che ti circonda. Non bisogna mai dimenticare quali sono le cose veramente importanti. Solo così ci si salva. Perdere il controllo, il contatto con il terreno, è facile. Noi siamo sempre rimasti genuini, umili: quell’ingenuità ci ha salvato”.

In Benji, che sta cercando di scrollarsi di dosso una certa immagine adolescenziale, costruendosi un nuovo profilo esattamente come provaste a fare voi dopo anni sulla cresta dell’onda, vi siete in qualche modo rivisti?

“Sì. Però c’è da dire che Benji & Fede hanno avuto un successo nazionalpopolare imparagonabile al nostro, in termini di numeri e di impatto mediatico. Il nostro, di successo, era figlio della generazione Mtv, più circoscritto ai ragazzi che seguivano i programmi dell’emittente, da Trl in giù. I genitori non avevano accesso a quel mondo. Loro, invece, hanno avuto un successo a 360 gradi, mainstream”.

Cominciò tutto con 500 euro. Quelli che racimolaste grazie a lavoretti estivi, paghette extra e un paio di piazzamenti in concorsi locali per band, con i quali incideste la demo di “Make up your own mind” e giraste il video, che riusciste a far arrivare a Claudio Cecchetto. Nella musica di oggi, tra algoritmi e quant’altro, c’è spazio ancora per storie così affascinanti?

“Temo di no. Quella magia si è persa, inevitabilmente, dietro nickname, mode, numeri. All’epoca era tutto più spontaneo, puro. Vedevi le band di riferimento su un palco e pensavi che quella doveva essere la cosa più bella del mondo: ‘Voiglio vedermi anche io lì sopra, girare l’Italia e magari anche il mondo facendo musica insieme ai miei amici’, pensavi”.



Che urgenza esprimevate nei vostri pezzi?

“Non avevamo chissà quali ambizioni se non quella di raccontare la nostra vita da diciottenni di provincia: i primi amori, le cotte, le prime delusioni. I ragazzini si rispecchiavano in quello che cantavamo”.

Che effetto vi fa, oggi che andate per i quaranta, riascoltare “Diventerai una star” e le altre hit di quegli anni? Provate più tenerezza o più imbarazzo?

“Nessuna delle due. Solo un senso di gratitudine nei confronti di quella canzone, che nacque nel salotto di una casa dell’hinterland milanese, con pochi mezzi, ma segnò la nostra partenza folgorante e l’adolescenza di tanti ragazzi”.

“Ho sempre ascoltato quella che chiamo la seconda repubblica del punk, Propagandhi, New Found Glory, Pennywise, Blink-182, Sum 41, Green Day. Sono cresciuto con quella musica, ma non avrebbe senso fare punk-pop in italiano perché diventa subito Finley”, ha detto Fedez. Non è l’unico a pensarla così. La critica vi ha massacrati. Perché si è spesso avuta questa percezione del vostro progetto?
“Perché oggettivamente all’inizio il nostro suono fu annacquato. L’immagine veniva prima del sound, era preponderante rispetto alle canzoni”.



E non provavate un senso di frustrazione nel non potervi esprimere al cento per cento?

“No. Avevamo idee diverse, oggi non lo nascondo, rispetto a quelle di Claudio Cecchetto. Ma ci fidavamo di lui e della sua esperienza ultradecennale. Poi è ovvio che quando non hai più intorno l’hype degli esordi e la band di turno ti scalza dal trono, la botta la senti”.



Nel vostro caso qual è stata, quella band?

“I Tokyo Hotel (ride)”.

Nel 2008 arrivaste al Festival di Sanremo sulla scia di un successo gigantesco, ma non andò benissimo: vi classificaste quinti. Non senza polemiche: “A decretare il vincitore sarà la gente, ora, non la giuria di qualità”, diceste. Cosa non funzionò?

“Ci presentammo in gara con una ballad che io, dal vivo, non ero in grado di cantare. Ci mise in difficoltà: non eravamo assolutamente pronti a quel tipo di esperienza. Il Festival fu un tritacarne”.

Vi siete mai sentiti trattati come roba di serie b, se non di serie c?

“Eccome. Le prime critiche ci scottarono parecchio. Poi cominciammo a non prestare più attenzione a quello che scrivevano di noi e della nostra musica. Parlava, per noi, il successo tra i ragazzi”.

Fa bene Ultimo a prendersi gioco dei giornalisti in quel modo?

“Forse l’ironia pagherebbe di più. Mostrare il fianco in questo modo no. Dovrebbe lasciarsi scivolare le cose”.

“Hanno cercato di farci fuori dal panorama musicale, ma non ce la faranno mai”, protestaste nel 2009 in occasione dell’uscita dell’album “Band at work”. Chi cercò di farvi fuori e perché? Chi erano i vostri nemici?

“Ma che ne so. Manco ricordo di aver detto certe cose. Mi fanno tenerezza, queste dichiarazioni. Forse eravamo semplicemente arrabbiati perché il successo aveva cominciato a diminuire. Magari alludevamo alle radio, che non ci avevano mai supportato, ma nonostante ciò avevamo venduto centinaia di migliaia di copie”.

I rapporti con Cecchetto come sono, oggi?
“Buoni. Gli facciamo ascoltare ancora i nostri pezzi, prima di farli uscire. Ci ha insegnato cose che al momento non capivamo e che poi abbiamo capito diventando grandi”.

Chi sono i Finley oggi?

“Una band consapevole. Quando le persone arrivano ai nostri concerti non hanno chissà quali aspettative: per la maggior parte della gente siamo sempre la boy band del 2006. Poi invece si trovano davanti qualcosa di diverso, di spiazzante. Abbiamo fatto più gavetta in mezzo che all’inizio. Quando ci capitò quella botta incredibile di notorietà avevamo vent’anni: ci ritrovammo catapultati in un mondo che ci apparteneva fino a un certo punto. Ci divertimmo, ma non avevamo gli strumenti per capire quello che ci stava succedendo. Oggi sapremmo come dominare la situazione anziché essere dominati, se ci fosse una seconda occasione”.

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