Non abbiamo bisogno di tutti questi doc su artisti appena nati
Da qualche anno a questa parte i documentari musicali sulla vita degli artisti si stanno moltiplicando come i Gremlins. Ma spesso sono progetti visivamente e contenutisticamente fragili, che non hanno un reale scopo narrativo e di approfondimento, ma fungono semplicemente da ennesimo strumento di marketing, perdendo di vista la vera missione di un progetto documentale.
La percezione
Ma perché il documentario musicale, in molti casi, si è ridotto a essere uno spot più lungo? In ordine di tempo, fra i tanti, sono arrivati recentemente quello su Mahmood e adesso sta per uscire la docuserie su Elodie, artisti interessanti e bravi che, però, hanno ancora una carriera tutta da scrivere. Ha davvero senso trattarli come fossero nomi già affermati, tanto da dedicare loro un lungo progetto visivo? È così essenziale, attraverso le solite riprese in stile vlog, vedere il processo di costruzione di alcuni dischi che, però, difficilmente entreranno nella storia della musica? Un documentario di spessore, che possa definirsi tale, perché si regga in piedi deve avere una storia densa, qualche cosa possibilmente di costruito nel tempo e di narrativamente rilevante o sin da subito appare poco credibile, debole e non potrà che rimanere in superficie.
Non è una regola assoluta, ci sono anche delle eccezioni: carriere folgoranti, così veloci, importanti e purtroppo drammatiche da meritare un racconto ad hoc. Un esempio? “Everybody's Everything”, il doc gioiello su Lil Peep, artista capace di creare un nuovo genere musicale fino alla sua morte per overdose a soli ventuno anni. Insomma, è tutto un altro campo da gioco se invece i documentari vengono intesi come grandi strumenti di promozione e affermazione, proprio come sta avvenendo in questi ultimi anni, mettendo completamente in secondo piano la ricerca e puntando tutto sulla percezione che questi prodotti possono esercitare su chi guarda. Legittimo, ma non va dimenticata la differenza fra un progetto narrativo e una lunga pubblicità.
Documentari per “vendere”
I documentari non dovrebbero “vendere”, ma raccontare, approfondire, svelare, creare interesse, fotografare momenti storici. Non si chiede di raggiungere i livelli di Brett Morgen (suoi i recenti capolavori “Kurt Cobain: Montage of Heck” e “Moonage Daydream” su Bowie, di cui vedete un frammento nella foto dell'articolo), ma neppure di finire a gonfiare con un'iniezione un documentario con nomi che hanno ancora tutto da dimostrare. “Travis Scott: Look Mom I Can Fly” è un ottovolante visivo che racconta poco, al contrario invece del doc su Kanye West, un progetto meraviglioso e motivazionale che ha avuto una gestazione lunghissima. Lo spartiacque fra i due è evidente: nel secondo al centro c’è una carriera, nel primo si racconta un fenomeno.
In Italia fece rumore il documentario “Famoso” su Sfera Ebbasta, uscito nel 2020, diretto da Pepsy Romanoff e scritto da Maurizio Ridolfo. Lo fece perché era il trampolino di lancio per l’uscita dell’omonimo album dell’artista. Un doc che, però, a parte la realizzazione del disco, non entra mai in profondità e allontana volutamente quasi ogni argomento che non sia dentro i confini del marketing: fra questi c’è la tragedia di Corinaldo in cui tra l’altro il rapper, da alcuni media, fu indegnamente tirato in mezzo, pur non c’entrando nulla. Sapere che cosa ha provato Sfera e come ha vissuto quel momento difficile, sarebbe stato interessante, avrebbe creato empatia, e invece il tema viene saltato a piedi pari. A parte un tributino finale non ce n’è traccia. In quel caso era più importante spingere il disco, che raccontare la persona dietro l’artista.
Scavare come Ferro e Lady Gaga
Tiziano Ferro con il suo “Ferro” del 2020, per la regia di Beppe Tufarulo, ha alzato l’asticella mostrando lati molto personali: dal bullismo subito a scuola al lungo percorso che lo ha portato al coming out, dal peso eccessivo raggiunto in adolescenza fino ad arrivare alla dipendenza dall'alcol. Non siamo ai picchi di “Gaga: Five Foot Two” del 2017, diretto da Chris Moukarbel e incentrato sulla cantautrice statunitense Lady Gaga, che si mostra totalmente senza filtri, ma la voglia di scavare c’è anche nel progetto della voce di Latina. Sul fronte rap in Italia, ove la proliferazione di doc è inarrestabile, svetta “Dope Boys Alphabet” che ripercorre in modo interessante il percorso di Noyz Narcos e del TruceKlan. Il recente doc su Salmo si concentra su un evento, ovvero il live a San Siro tenuto nel 2022, ma è comunque di qualità e coerente, offre uno sguardo da "dietro le quinte". Un lavoro importante lo svolge anche Esse Magazine che produce sì tanti doc “spottone” per gli artisti, ma anche alcuni progetti svincolati dalla promozione come la serie “2016”. Non posso non citare “La nuova scuola genovese” (disclaimer: l'ho scritto personalmente, mi rendo conto che può suonare come un’autocitazione non opportuna), un doc che però racconta non tanto un artista, ma una storia artistica profondamente legata a una città, Genova.
La qualità
In definitiva oggi il documentario musicale sta sempre di più cambiando forma, ricoprendo un ruolo da instrumentum regni, cioè un mezzo per affermarsi, per arrivare a un obiettivo e farsi pubblicità, mettendo in secondo piano il contenuto. E sono prodotti soprattutto indirizzati a una fan base: sarebbe interessante anche avere dei numeri pubblici su quante persone guardano questi progetti sulle piattaforme. È tutto in linea con il mercato e la fruizione usa e getta della musica, ma anche in questo campo è e sarà la qualità a essere premiata e a restare. Il resto si dimenticherà molto in fretta.