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Fenomenologia di Shakira (oltre Piqué e i gossip)

Oltre la revenge song: il pop di oggi non sarebbe lo stesso, senza il "latino caliente" di Shakira.
Fenomenologia di Shakira (oltre Piqué e i gossip)

I violini e le chitarre elettriche di “Kashmire” dei Led Zeppelin lasciano il posto ai suoni del sitar, del darbuka, del liuto e di altri strumenti del mondo orientale. Una gigantesca fiamma avvolge, si fa per dire, Shakira, che al centro del palco comincia a cantare “Ojos así”, una delle canzoni più iconiche della sua carriera, prima di cimentarsi in uno dei suoi cavalli di battaglia: la danza del ventre. L’anno è il 2020. Il palco è quello dell’halftime show del Super Bowl, la finale del campionato della National Football League, la lega professionistica statunitense di football, l’evento mediatico più commentato e seguito negli Stati Uniti che ogni anno tiene incollati davanti alla tv qualcosa come 100 milioni di spettatori. Shakira lo usa per rivendicare la sua grandezza: nella storia della pop music nessuno è riuscito meglio di lei a costruire con le sue canzoni un ponte immaginario capace di unire il mondo occidentale e quello orientale. Chi quella grandezza l’ha riscoperta solo recentemente, complice il successo mediatico di “Shakira: Bzrp music sessions, vol. 53” (oltre 170 milioni di streams in due settimane solo su Spotify per la hit, che conquista la playlist “Latino Caliente”, permettendo alla cantautrice di riprendersi lo scettro di regina del latin pop), la instant-song con la quale si è vendicata del tradimento subito dall’ex marito Gerard Piqué, farebbe bene a ripassare la storia della 45enne cantautrice colombiana, i suoi primati, la sua discografia.

Dopotutto, il suo “Laundry service” anche a distanza di ventidue anni dall’uscita resta l’album latino femminile più venduto di tutti i tempi: era il 2001 quando il fenomeno Shakira Isabel Mebarak Ripoll, per gli amici semplicemente Shakira, piombò sulla scena mondiale, sparigliando le carte in tavola del pop. La cantautrice colombiana aveva all’attivo già quattro dischi, il primo dei quali, “Magia”, inciso quando aveva solamente 14 anni. Ma nessuno, fino a quel momento, la conosceva ancora al di fuori del mercato latinoamericano. Nonostante due anni prima Ricky Martin con “Livin ‘la vida loca” avesse fatto incetta di Dischi d’oro e di platino a livello globale, il successo era tutto tranne che scontato: “Prima di affrontare questa grande sfida di scrivere per la prima volta in inglese e realizzare il mio primo album in inglese e presentarlo al mondo intero, confesso che mi sentivo un po’ spaventata. Anzi, molto spaventata. Ma il mio istinto mi diceva di farlo”, confessava Shakira nelle interviste dell’epoca. Risultato: 13 milioni di copie nel mondo. L’inizio di una favola destinata a durare a lungo, tra successi, crisi, rinascite.

Cos’è che lega Shakira al Premio Nobel per la letteratura Gabriel García Márquez? A parte il fatto di essere entrambi colombiani, apparentemente nulla. Eppure nel 2002 il Guardian ebbe l’intuizione di far dialogare tra loro lo scrittore, all’epoca 75enne, e la popstar, in quel momento in testa alle classifiche mondiali. Ne venne fuori un pezzo, intitolato “The poet and the princess”, “Il poeta e la principessa”, in cui Márquez arrivò a dire della musica di Shakira che “ha un timbro personale che non la fa somigliare a nessuno: nessuno può cantare o ballare come lei, con una sensualità così innocente, che sembra essere di sua invenzione”. L’inclusività è sempre stato il cardine intorno al quale ha ruotato la sua intera carriera, ormai ultratrentennale. Non solo per quel desiderio, quasi ossessivo, di abbattere ogni barriera geografica. Ma anche per la sua capacità di infrangere i confini musicali, passando dal pop al rock, dal tormentone latino al pezzo acustico, da “Illegal” all’inno ufficiale dei mondiali del 2010 “Waka Waka”. (Ri)ascoltare per credere il dittico “Fijación oral vol. 1” e “Oral fixation vol. 2”, spediti nei negozi uno dietro l’altro a distanza di cinque mesi l’uno dall’altro, venticinque tracce in tutto. Lì dentro c’è tutta la versatilità di Shakira, affiancata da un guru della pop music come Rick Rubin, che dopo aver lavorato con band del calibro dei Rage Against the Machine, System of a Down, Red Hot Chili Peppers, Run-DMC, Slayer e Beastie Boys, ha il coraggio di mettere i suoi guizzi a disposizione di una reginetta del pop, sfidando i puristi: “I due dischi hanno in comune l’ecletticità, il passaggio repentino dal pop all’elettronica, al jazz, alla bossa nova, anche se secondo me il disco in spagnolo è più romantico, mentre quello in inglese decisamente più impegnato. La presenza di Rick Rubin è stata importante, mi ha dato sicurezza e i consigli giusti. I due album hanno un denominatore comune: sono entrambi molto eclettici, c’è una grande diversità tra un brano e l’altro. Il pop di ‘La tortura’ è molto distante dall’elettronica Anni ’80 di ‘La pared’ o dal jazz e dalla bossa nova di ‘Para obtener un si’, influenzata da Sinatra e Jobim”.

L’album della maturità arriva però solamente quattro anni dopo il dittico “Fijación oral/Oral fixation”: è “She wolf”. Nel disco ci sono pesi massimi del calibro di Pharrell Williams, Wyclef Jean, Timbaland, J-Roc, tra gli altri. Tutti uomini di peso nel music biz. Ma al centro c’è lei, che nei testi racconta di essere una donna forte, determinata, combattiva, decisamente non intenzionata a concedere e a perdere nemmeno un millimetro del suo impero: “Se anni fa mi avessero chiesto se ero femminista avrei risposto no. Ora so che sbagliavo. Ho capito che ci sono molte cose che ci portano a essere brave persone, ma che sono tante anche le risposte che bisogna trovare dentro di noi. Ciò che intendo è una libertà di idee: intellettuale, artistica, spirituale. Un percorso necessario per liberarsi dalle gabbie che ci impone la società di oggi con i suoi cliché, opprimenti soprattuto per le donne. È questa l’unica via che abbiamo per la felicità”. Pazienza che il disco non sia esattamente un best seller: un anno dopo con la stessa “Waka Waka” Shakira torna a far ballare il mondo intero, servendosi di un evento come i mondiali di calcio in Sudafrica. “Sono un evento globale che connette i paesi e le religioni in un’unica passione. Sono un evento capace di unire e integrare e questo è l’argomento di questa canzone”, dice lei.

Il 2010 non è solo l’anno di “Waka Waka”, ma anche quello di “Sale el sol”, il secondo album nel giro di un anno: il più ambizioso della sua carriera. Shakira unisce spagnolo e inglese, musica latina e rock, ospiti prestigiosi e cover inaspettate (come quella di “Islands” degli xx). Ballate, dance Tamarra, duetti con rapper come il britannico Dizzee Rascal: in “Sale el sol” c’è tutto il campionario di quello che deve essere un buon disco di pop universale, capace di mettere d’accordo tutti: “È come se avessi ritrovato me stessa. Sei influenzato da tutto ciò che ascolti alla radio o forse da ciò che ritieni siano le aspettative degli altri. Ma poi all’improvviso ti rendi conto che tutto ciò di cui hai bisogno per scrivere è quello che c’è dentro di te: non guardare fuori, ma dentro”, spiega. L’uno due “Shakira” e “El Dorado” tra il 2014 e il 2017 segna un progressivo ritorno alle sue radici, dopo uno spaesamento: “Pensavo che non avrei mai più fatto buona musica. Sto ricominciando a scrivere e le idee mi stanno pian piano arrivando. In spagnolo, però: questa volta ho un sacco di cose da dire in spagnolo”. L’El Dorado evoca una terra della Colombia dove erano nascosti tesori e dove Shakira torna per ritrovare sé stessa: dal reggaeton di “What we said” a “Perro fiel” in duetto con Nicky Jam, passando per la bachata di “Deja vu”, il sangue latino della popstar ribolle. E il Latin Grammy come miglior album pop vocale contemporaneo - l’undicesimo della sua carriera - e il Grammy Award al miglior album pop latino confermano che la regina è ancora lì sul trono.

Nel 2020 la popstar si toglie un sassolino dalla scarpa festeggiando i venticinque anni dall’uscita dell’album “Pies descalzos”, mentre il passaggio al Super Bowl fa impennare le vendite delle sue canzoni e di quelle di Jennifer Lopez addirittura dell’893%. Ai tempi - era il 1996 - i discografici le suggerivano di cantare in inglese, perché la lingua rischiava di essere un limite: lei gli fece notare che sbagliavano a pensarla così. E anche quando con “Laundry service” li assecondò, promise: “Ho intenzione di continuare a essere la stessa artista, con lo stesso linguaggio musicale, usando però una lingua diversa”. Il tempo le ha dato ragione. Da Rosalía a Rauw Alejandro, da Manuel Turizo a Maluma, passando per Ozuna: venticinque anni dopo il latin pop, cantato rigorosamente in lingua spagnola, spopola ovunque. E il merito è anche di Shakira.

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