Ry Cooder - la recensione di "THE PRODIGAL SON"
Nel 2015, durante il tour con Ricky Skaggs, Ry Cooder ha ripreso vecchie canzoni imparate da ragazzo. Il figlio Joachim lo ha invitarlo a riprendere in mano quel repertorio e fare un disco semplice ma efficace, basato sulla sua voce e sulla sua chitarra. Si chiama “The prodigal son” ed è basato su cover di vecchi gospel e nuove canzoni. Cooder prende un patrimonio che il pubblico di massa considera irrilevante e lo usa per raccontare il nostro tempo. Nel 2018 il Demonio si nasconde nella gentrificazione.
È un suono soffiato e lievemente metallico, una pulsazione scura e misteriosa su cui poggia il canto. E non dovrebbe stare lì. La canzone è “Nobody’s fault but mine”, un gospel attribuito a Blind Willie Johnson entrato nel repertorio rock grazie ai Led Zeppelin. Quello strano suono è alieno a entrambe le tradizioni, ma nel nuovo album “The prodigal son” Ry Cooder ha deciso di prendere alcuni pezzi gospel e blues e rifarli in chiave lievemente diversa. Non sono canzoni particolarmente celebri e non sono scelte a caso: ridando voce a vecchi testi che parlano di integrità, tentazione, stranieri, amore e morte, il chitarrista californiano offre una bussola morale per questo tempo travagliato. “The prodigal son” è gospel per l’uomo moderno.