Bob Dylan - la recensione di "Triplicate"

Bob Dylan porta a compimento la sua ricognizione del Grande Canzoniere Americano con un triplo in cui rifà 30 canzoni (di cui 29 già nel repertorio di Frank Sinatra) risalenti per lo più agli anni della Grande Depressione e della Seconda guerra mondiale. Sono canzoni realiste e anti-materialiste, avverte Dylan. Le riduce ai minimi termini, usando la pedal steel come un’orchestra in miniatura, per cantare di amori perduti e del tempo che passa.
Forse avremmo dovuto prestare più attenzione a quel che Bob Dylan scriveva nell’autobiografia: “Le canzoni di Woody Guthrie dominavano il mio universo (…) ma non potevo evadere dal dolceamaro, triste, intenso mondo di Harold Arlen”. Da una parte il capostipite dei folksinger che cantano l’America dei grandi speranze e delle grandi ingiustizie, dall’altra l’autore di “Over the rainbow”, “Stormy Weather” e altri capolavori del Great American Songbook. “Van Ronk sapeva cantare quelle canzoni. Anch’io, ma non mi sarei mai sognato di farlo. Non erano nel mio copione, non erano nel mio futuro”.
Il futuro può essere cambiato e l’uomo di Duluth l’ha fatto, prima pubblicando l’album di standard già nel repertorio di Frank Sinatra “Shadows in the night”, poi facendo il bis con “Fallen angels”, ora producendo “Triplicate”, triplo album che rappresenta il suo omaggio definitivo al Grande Canzoniere Americano. Neanche ai tempi di “Good as I been to you” e “World gone wrong”, dove pure giocava in casa con il folk e il blues, aveva dedicato tanta energia a un progetto di recupero di musiche del passato.