Da riscoprire: la storia di "Dirty Deeds Done Dirt Cheap" degli AC/DC

La storia del rock è incredibilmente piena di cantonate. Pessime scelte fatte da chi, pur avendo il privilegio di poter prendere decisioni importanti agisce senza aver compreso appieno un fenomeno o un artista. Di solito il tempo, poi, fa giustizia e punisce – più o meno metaforicamente – i responsabili... ma il fatto resta, con tutti gli annessi, i connessi e gli eventuali danni causati da gesti non ponderati o guidati da logiche errate.
È il caso di “Dirty Deeds Done Dirt Cheap”: il terzo disco inciso, in ordine cronologico, dagli AC/DC, pubblicato in Australia nel settembre del 1976, ma – incredibilmente – rifiutato dalla Atlantic che avrebbe dovuto farlo uscire negli USA e aiutare la band a sfondare in quel mercato all’epoca ancora ostico per Angus Young e compari.
A complicare ulteriormente il quadro interviene la decisione di cambiare, per l’uscita nei mercati extra-australiani, la tracklist: per cui nella stessa annata si trovano in commercio due versioni differenti dello stesso lavoro. Una australiana e una per il resto del mondo (USA esclusi, che il disco lo intravedono solo come import, in quantità limitate e a prezzi elevati).
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“Dirty Deeds Done Dirt Cheap”, nel 1976, è un album intrinsecamente delinquenziale, maleducato, rozzo, inaccettabile per una certa fetta di benpensanti del rock tradizionale – ancora legati alle sonorità pre-esplosione del punk e che non disdegnano incursioni nei lidi raffinati (o semplicemente pomposi) di certo prog e rock poppeggiante. Il suo bello è proprio questo: si tratta di un lavoro deliziosamente lontano da qualsivoglia forma di raffinatezza, che mostra al mondo quanto liberatorie e divertenti possano essere la mancanza di sensibilità, l’assenza di tatto e zero buon gusto nelle accezioni legate al comune senso del pudore... qui si va al sodo e tutto evoca sesso, donne, divertimento stradaiolo, atteggiamento strafottente e – ovvio – l’immancabile campionario di alcool e alterazione mentale.
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