“El pintor” suona un po’ come tutti i dischi precedenti della band. Solo meglio. Non come “Turn on the bright lights”, che rimane uno dei dischi simbolo del nuovo rock di inizio millennio. Ma "El pintor" suona decisamente meglio dei precedenti. Lo si capisce subito, fin dalle prime note, fin dal titolo della prima canzone: il ritorno della rabbia.
Non sono mai stati rabbiosi, gli Interpol. Nella loro musica c’è poca pancia e molta testa, soprattutto nei riff geometrici di Daniel Kessler. Però a questo giro a fare la differenza c’è il suono: più pulito, più secco. Le canzoni sono più canzoni, più essenziali e meno arzigogolate. Meno tastiere, meno sovraincisioni. Gli Interpol sono tornati a fare la band, in modo più diretto. Suonano bene assieme, l'esperienza si sente e paradossalmente può avere aiutato l'aver perso un pezzo (il bassista Carlos Dengler) e avere inciso questo album come trio.
“My desire” ricorda “Obstacle 1” (che appunto ricordava “Marquee moon”); Il riff è quasi lo stesso di “Same town new story” (provate a fare uno “skip” da una canzone all’altra...). E così come “Anywhere”, le prime quattro canzoni ricordano le atmosfere del primo album, con poche variazioni. Qualche evoluzione del suono c’è, più avanti nell’album: “Everything is wrong” ricorda più i New Order che i Joy Division, forse?
Forse sì. Ma tutto questo, alla fine, è un bene. “El pintor” è un disco che oggi suona un po’ fuori dal tempo: non c’è più quella New York di inizio millennio. Quella che sembrava poter far rinascere una scena simile quella della fine degli anni ’70. Una parte di quell’indie-rock che voleva essere mainstream è sparita (per dire: dove sono finiti gli Strokes? Sembravano destinati ad essere le nuove megastar, e si sono persi per strada...).
In questa dissoluzione dell'indie-rock-mainstream, gli Interpol hanno avuto il grande pregio di continuare dritti per la loro strada, facendo quello che sanno fare: "El pintor" sarà pure una copia, ma è decisamente una bella copia.