Neil Young - A LETTER HOME - la recensione

Recensione del 01 mag 2014 a cura di Gianni Sibilla

Voto 4/10
Questo album è bruttissimo. Bellissimo. Una presa per i fondelli. Affascinante. Antitecnologico. Contemporaneo. Inascoltabile. Ha un suono memorabile.
Su “A letter home” si può dire tutto ed il contrario di tutto. E quasi tutti gli aggettivi, le interpretazioni sono facilmente argomentabili e supportati da fatti. Partiamo da questi, allora.


“A letter home” è un disco di cover che Neil Young ha inciso al Third Man Records Store di Jack White usando un “Voice-o-graph” del 1947, restaurato - ovvero una cabina di 2 metri quadri in cui si registra in presa diretta un disco (potete vedere un video dall’incisione di una canzone, qua ). Young l’ha inciso con voce e chitarra (compare un piano in due brani, suonato da White) e l’ha concepito come una lettera alla madre, proprio perché i "Voice-o-graph" venivano usati non per la musica ma per registrare delle specie di messaggi audio. L’album si apre con uno di questi messaggi (“Hey Ma, il mio amico Jack ha questa scatola dalla quale si può parlare!”), e le dediche parlate ricorrono in vari punti, tra una canzone e l’altra. Distribuito in poche migliaia di copie per il Record Store Day, verrà ristampato in un mega-box , che conterrà anche una versione digitale ad alta risoluzione.

Il primo dato che emerge all'ascolto è che questo disco suona male. Malissimo. E’ inascoltabile. E’ volutamente inascoltabile. La chitarra, il piano, la voce sembrano provenire dall’oltretomba. Insomma suona come un disco folk della prima metà del ‘900. Il gioco è quello: prendere un repertorio iper-classico (Dylan, Springsteen, Willie Nelson, Everly Brothers) e farlo suonare come delle “old songs Jack and I I just rediscovered”, come dice lo stesso Young ad un certo punto.


Poco importa, poi che il disco sia davvero brutto dal punto di vista musicale, e non perché si senta male. Le cover sono per lo più piatte, non c’è nessuna interpretazione davvero memorabile. Non c’è nulla di nuovo, nulla che aggiunga o neanche tolga qualcosa a Neil Young: ricordano cose già fatte (su “Needle of death”, per dire, si potrebbe cantare tranquillamente “Ambulance blues”), suonano già terribilmente sentite anche in questa veste iper-minimale, niente più che nenie - degne di nota, si fa per dire, solo perché c'è la voce di Neil Young; un esercizio di stile musicalmente inutile, insomma.

Ma non è questo il punto. Il punto di “A letter home” è la forma, non la sostanza. Alla fine, Neil Young con questo album ci sta dicendo la stessa cosa che ci ha detto con l’operazione Pono, il lettore digitale ad alta fedeltà per cui si sta esponendo da mesi, anni. Young ci sta dicendo “Vi insegno come si ascoltava la musica una volta, e come dovreste ascoltarla anche oggi”. Poco importa che arrivi da un aggeggio di registrazione elettro-magnetica di 65 anni fa o da un aggeggio apparentemente iper-tecnologico (apparentemente, perché sul mercato esistono lettori di più avanzati e più economici del Pono). La lezione che ci sta dando è la stessa.


Quello che conta di questo disco è la dichiarazione artistica fatta con il mezzo, non con il contenuto. Ed è una lezione sulla carta terribilmente affascinante, non troppo originale (non è certo il primo disco registrato low-fi), ma un bel po’ moralistica, come spesso lo sono le uscite del personaggio. Che, ricordiamocelo, è quello che non ha voluto pubblicare per decenni su CD alcuni suoi album (“On the beach” su tutti) perché il formato non suonava abbastanza bene.
Questo disco rimarrà negli annali come una simpatica anomalia, una benemerita presa per i fondelli, una delle tante stranezze della sua discografia, al pari di quegli album (“Trans”, “Everybody’s rocking”, etc) che erano fatti più per far incazzare che per essere davvero ascoltati.
Anche da questo punto di vista, a ben vedere, “A letter home” è un disco vecchio.

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