(Alfredo Marziano)
Elton John & Leon Russell - THE UNION - la recensione
Recensione del 18 ott 2010
Sir Elton e i suoi abiti di Armani li conoscono tutti, ma chi è quel tipo con il barbone bianco da santone e i capelli lunghi da vecchio hippie che siede vicino a lui e al pianoforte a coda nella foto di copertina? E’ un grande
missing in action
della musica rock, è il “master of space and time”, lo stregone amico delle star che da giovane suonò in centinaia di dischi di successo (da
Frank Sinatra
ai
Beach Boys
, suo il piano elettrico in “Mr. Tambourine man” dei
Byrds
) come membro di quella fantastica ciurma di
session men
losangeleni conosciuta come The Wrecking Crew, per poi diventare il defilato direttore d’orchestra di fantasmagorici spettacoli come il concerto per il Bangla Desh voluto da
George Harrison
e il “Mad dogs and Englishmen” che consegnò alla storia l’ugola ruggente di
Joe Cocker
. Insomma, è
Leon Russell
, un mediomassimo del rock uscito dal ring di sua spontanea volontà e che solo la cocciutaggine di
Elton John
,suo devoto ammiratore e discepolo, ha tirato fuori da un esilio autoimposto nel circuito dei piccoli club prima che sia troppo tardi (è bastata una telefonata: i due non si sentivano dalla bellezza di 37 anni!). Non se la passa troppo bene, il sessantottenne Leon, se è vero che le sedute di incisione hanno dovuto essere interrotte lo scorso mese di gennaio per permettergli di sottoporsi a una delicata operazione di cinque ore e mezzo al cervello. Ma è qui tra noi, e l’incontro tra lui, mr. Reginald Dwight, il paroliere di fiducia Bernie Taupin e l’ormai ubiquo produttore
T Bone Burnett
, negli Electro Magnetic Studios che quest’ultimo ha allestito a Los Angeles, è un summit da consegnare alla storia. Il disco partorito da questo epocale G4 è bello, ma – questione di gusto personale – avrebbe potuto esserlo ancora di più: se solo Elton e Leon avessero calcato meno la mano sul pop e più su quella “Cosmic American Music” (come la chiamava il compianto
Gram Parsons
) che è sempre stata la specialità di Russell, un minestrone saporito e genuino di blues, country, soul, gospel e rock’n’roll che il cappellaio matto dell’Oklahoma sa cucinare a meraviglia e che mr. Rocket Man ha frequentato con profitto all’epoca dei suoi primi dischi anni ’70 per la DJM di Dick James. Si dividono la ribalta da amiconi, i due: due voci (quella di Elton sempre in forma smagliante, quella di Leon più fragile e sofferente) e quattro mani sul pianoforte, strumento protagonista – non è certo una sorpresa – di tutte le canzoni. E sono in ottima compagnia:
Neil Young
presta la voce a “Gone to Shiloh”, epica ballata sudista che rievoca una storica battaglia della guerra di Secessione e che sta perfettamente nelle sue corde;
Brian Wilson
moltiplica la sua sullo sfondo della malinconica “When love is dying”, canzone da
crooner
fuori orario e con gli occhi stropicciati. La
backing band
è da sogno e funzionale, senza smanie di protagonismo:
Booker T Jones
suona l’organo come volesse riportare tutti nella congregazione,
Marc Ribot
pizzica la sua chitarra magica con la solita parsimonia, Robert Randolph si tiene a freno accarezzando la pedal steel, Jim Keltner pesta meno del solito sui tamburi,
Don Was
si nasconde dietro il basso e un coro di voci nere ammanta di gospel e spiritual l’album intero.
“If it wasn’t for bad” non è una partenza particolarmente memorabile, ma l’“Americana” in cinemascope di “Eight hundred dollar shoes” e l’incalzante gospel funk alla Staple Singers di “Hey Ahab” rimettono subito le cose a posto. C’è un omaggio countreggiante al leggendario Jimmie Rodgers e un ruspante r&b stile New Orleans che sembra firmato da Allen Toussaint (“Monkey suit”), mentre un valzerone gotico che suona come una marcia funebre (“There’s no tomorrow”) prende ispirazione dall’ “Hymn n. 5” di The Mighty Hannibal e un trotterellante honky tonk come “A dream come true” rievoca la stagione dell’outlaw country: riferimenti nobili e a tutto campo, emozioni e divertimento assicurato anche se la scrittura qualche volta è di di routine e proprio Leon ogni tanto fa fatica a tenere il passo. Russell si mostra particolarmente a suo agio tra i morbidi ritmi black di “Hearts should have turned to stone” e suona sinceramente commovente nell’epilogo di “The hands of angels”, confessione disarmante della sua fragilità e delle sue traversie di salute. Elton, al contrario, sprizza energia e tira verso il lato più pop del disco dando il meglio su “Never too old (to hold somebody”), una impeccabile ballata nello stile classico di autori come Jimmy Webb. Dai tempi di
“Songs from the West Coast”
(2001) e di
“The captain and the kid”
(2006) è un po’ rinato anche lui, guardando al passato suo e altrui si è finalmente smarcato dal pop vacuo e seriale di troppi dischi inutili. E dunque, anche se “The union” non è forse tutto quel che prometteva d’essere, grazie Elton. E grazie, Leon.
(Alfredo Marziano)
(Alfredo Marziano)
Tracklist
01. If it wasn’t for bad
02. Eight hundred dollars shoes
03. Hey Ahab
04. Gone to Shiloh
05. Jimmie Rodger’s dream
06. There’s no tomorrow
07. Monkey suit
08. The best part of the day
09. A dream come true
10. When love is dying
11. I should have sent roses
12. Hearts should have turned to stone
13. Never too old (to hold somebody)
14. The hands of angels