Nessuna delle due band mi era nota, ebbi subito una preferenza per i secondi e pensai che il loro indie-folk così americano mi piaceva assai. Pensai che era proprio il caso di approfondire la ricerca e moltiplicare gli ascolti. Gli ascolti si moltiplicarono senza grande fatica – il disco è uno dei miei preferiti dell’anno solare 2009 e trova la via del lettore con inusuale facilità -, la ricerca svelò da subito che, nonostante le sonorità avessero tutti i crismi delle stelle e delle strisce, i quattro provengono dalla inglese città di Londra. Il secondo passo nel mondo di questa band porta a scoprire che si sono formati nel dicembre del 2007, che sono in quattro a dividersi gli onori e che un Mumford effettivamente esiste, di nome fa Marcus e si dedica a chitarra e batteria, quindi, per sagace deduzione, i Sons non possono che essere Winston Marshall (chitarra e banjo), Ben Lovett (tastiere) e Ted Dwane (contrabbasso).
Le danze vengono aperte dalla canzone che intitola l’album, una invocazione al cielo lamentosa e ritmata il tanto e il giusto che basta per agganciare l’attenzione, il suono del banjo la sdrammatizza. Il medesimo schema si ripete nella seguente “The cave”: l’iniziale pizzicato della sei corde e un canto sussurrato si fanno via via più decisi e incalzanti al dipanarsi del testo.
E’ la tromba che regna sovrana nell’infinito braccio di ferro tra cuore e ragione in tema di amore come accade in “Winter winds”: “and my head told my heart let love grow but my heart told my head this time no this time no”. “Roll away your stone” è tutta per banjo, chitarra e coro, “White blank page” è il canto di un cuore tormentato e l’incedere musicale profuma di lontano del vento e delle scogliere della verde Irlanda. “I gave you all” è intima e sommessa il giusto, il singolo “Little lion man” è una riuscita ballata da pub prima che entrino in scena i Pogues ad alzare la gradazione alcolica e mandare tutto in caciara. La parte finale di questa opera prima non fa che ribadire e sottolineare i concetti e i temi sin qui presentati con una menzione particolare per la delicata “Dust bowl dance”, forse il brano che preferisco e che mi ricorda il primissimo Bruce Springsteen . I Mumford & Sons sono una delle sorprese dell’anno per compattezza musicale, per scrittura, per capacità di non inventare nulla ma di avere ben chiaro come miscelare gli ingredienti a loro disposizione. Okkervil River
Insomma, Natale è pericolosamente vicino, se siete (come me) nelle canne e non sapete cosa regalare a una persona particolarmente cara, questo cd, ve lo posso assicurare, sarà un dono certamente gradito.
(Paolo Panzeri)